mercoledì 9 novembre 2016

Miti e leggende della Sicilia

I molteplici miti e leggende della Sicilia nel corso dei secoli hanno influenzato la cultura e le tradizioni dell'isola. Ho già parlato di Aci e Galatea e di Scilla e Cariddi, e parlando di Catania ho anche riportato le leggende della giovine Gammazita, dei fratelli pii Anapia e Anfinomo, del paladino Uzeta e di Cola Pesce. Vediamo ora qualche altra leggenda.



Faccio riferimento per alcune leggende a http://www.rivistazetesis.it/Ciclopi/Ciclopi.htm

La leggenda dei Ciclopi è stata localizzata e riferita, dai maggiori poeti dell’antichità classica, ai tempi mitici della Sicilia. Appartiene più alla sfera fantastica della creazione artistica che a quella concreta del racconto storico; nella sua forma più antica essa è attestata in quello straordinario poema che si colloca agli inizi della letteratura greca e, nel contempo, della letteratura occidentale, e cioè l’Odissea, ove l’avventura nella terra dei Ciclopi fa parte della più ampia saga dei viaggi che Ulisse compie tornando dalla guerra combattuta a Troia. Ulisse approda nella terra dei Ciclopi in seguito a una tempesta che gli fa perdere l’orientamento e lo trascina per nove giorni verso una meta sconosciuta: l’espediente della tempesta rappresenta, nel linguaggio poetico, il passaggio dal mondo della realtà a quello della fiaba. 

 La nascita dei Faraglioni

Anche la storia dei Faraglioni (il nome deriva probabilmente dalla parola greca 'pharos', che vuol dire 'faro') di Acitrezza è legata all'Odissea di Omero, perché gli otto meravigliosi scogli che si ergono dal mare sono attribuiti alla furia del gigante Polifemo. Ulisse, sbarcato nella Terra dei Ciclopi con i suoi compagni, iniziò ad esplorare il posto e finì, spinto dalla curiosità, proprio nella grotta del ciclope Polifemo, che li imprigionò. Dopo che Polifemo ebbe mangiato diversi suoi amici, Ulisse escogitò un piano di fuga e, dopo aver accecato il gigante con un grosso bastone, riuscì a fuggire insieme ai compagni ancora in vita e a raggiungere le loro navi. Polifemo, adirato ma impossibilitato a vedere, iniziò a scagliare delle enormi rocce verso di loro, che finirono in mare e diedero così vita ai Faraglioni.


La credenza che la Sicilia sia stata la terra dei Ciclopi sarebbe dovuta al ritrovamento, da parte degli antichi, dei resti fossili di elefanti nani: il cranio di questi animali, ben più grande di quello umano, provvisto al centro di un foro nasale o meglio proboscidale, sarebbe stato scambiato per una cavità orbitale e attribuito pertanto a esseri giganteschi con un solo occhio in fronte: un esemplare di questo genere, classificato come elephas mnaidriensis, è custodito nel museo dell’Istituto di geologia di Palermo. 







Non bisogna dimenticare del resto che l’elefante è il simbolo ufficiale della città di Catania dal 1239; questo dato si ricollega con tutta probabilità al fatto storico che la Sicilia, nel paleolitico superiore, possedeva tra la sua fauna originaria anche l'elefante. Infine è probabile che fenomeni naturali, come quelli eruttivi e sismici, propri dei crateri vulcanici presenti numerosi nell’isola, siano stati visti come l’effetto delle attività tipiche di esseri giganteschi come i ciclopi.

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L’origine dell’elefante di Catania nasce da una leggenda: quando Catania fu per la prima volta abitata, tutti gli animali feroci e pericolosi furono messi in fuga da un elefante, al quale i catanesi, in segno di ringraziamento, eressero una statua, da loro chiamata con il nome popolare di liotru, che è una correzione dialettale del nome di Elidoro, un dotto catanese dell’VIII secolo. Questi fu fatto bruciare vivo nel 778 dal vescovo di Catania San Leone II il Taumaturgo, perché Elidoro, non essendo riuscito a diventare vescovo della città, disturbava le funzioni sacre con varie magie, tra cui quella di far camminare l’elefante di pietra. Si raccontava infatti che lo avesse scolpito egli stesso, forgiandolo dalla lava dell'Etna, per poi cavalcarlo mentre compiva le sue magie. La tradizione popolare vuole che Eliodoro, dopo aver animato il suo elefante di pietra lavica, imperversasse per la città in sella all'animale magico, rendendo impossibile la vita dei suoi abitanti. Si narra che fosse in grado di acquistare qualsiasi mercanzia con pietre preziose e oro, che però diventavano normali sassi nelle mani dei poveri mercanti.
Nella foto, San Leone Taumaturgo che sconfigge il mago Eliodoro. Olio su tela del secolo XVIII di Matteo Desiderato.

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Diverse ipotesi sono state fatte dagli studiosi per spiegare l’origine e il significato della statua di pietra, che oggi troneggia in Piazza Duomo, nella sistemazione datale dal Vaccarini nel 1736. Di queste ipotesi due meritano un cenno: la prima è quella dello storico Pietro Carrera da Militello (1571-1647), che nel suo libro Memorie Historiche della città di Catania, lo spiegò come simbolo di una vittoria militare riportata dai catanesi sui libici; ipotesi che ha portato alla creazione del telone del teatro Bellini di Catania, perché il pittore Sciuti nel 1890, per l’inaugurazione del teatro, vi raffigurò proprio questa immaginaria vittoria dei catanesi sui libici.


L’ipotesi più attendibile è però quella espressa dal geografo arabo Idrisi nel XII secolo: secondo Idrisi, l’elefante di Catania è una statua magica, costruita in epoca bizantina, proprio per tenere lontano da Catania le offese dell’Etna; questa sembra la migliore spiegazione che si possa dare sul simpatico pachiderma, cui i catanesi sono legatissimi, tanto da minacciare una sommossa popolare quando, nel 1862, si ventilò la proposta di trasferire u liotru dalla Piazza Duomo alla periferica piazza Palestro. 






Il mito più famoso di Siracusa è quello della ninfa Aretusa, personaggio della mitologia greca, figlia di Nereo e di Doride, e di Alfeo, uno dei numerosi figli del dio Oceano, personificazione del più grande fiume del Peloponneso, che scorre nei pressi della città di Olimpia in Grecia.
La ninfa Aretusa, di cui Alfeo era innamorato, per sottrarsi al suo corteggiamento, fuggì in Sicilia e, nei pressi di Siracusa, grazie ad Artemide, si trasformò in fonte. Il dio, innamorato, al fine di ritornare da lei, pregò Zeus di cambiare il corso del fiume di cui era padrone. Zeus, impietosito da Alfeo, gli permise di deviare il suo corso passando sotto le acque del mar Ionio per sfociare nei pressi di Siracusa, nell'isola di Ortigia, dove avrebbe incontrato di nuovo la ninfa Aretusa.
Nella foto, il mito di Aretusa e Alfeo sul grande orologio di Rouen.

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La deviazione del fiume Alfeo ricorre anche nella quinta delle dodici fatiche di Eracle, (Ercole) consistente nella ripulitura delle stalle di Augìa, che sarebbe stata superata deviando le acque dell'Alfeo, che lungo il loro nuovo percorso avrebbero incontrato e dilavato le stalle e trasportato con sé tutto il letame accumulato. Nella foto, Eracle devia il corso dei fiumi Alfeo e Peneo. Mosaico romano del III secolo d.C.
Si narra anche di una leggenda secondo la quale una coppa gettata nel fiume Alfeo sarebbe poi riemersa nella fonte Aretusa. Tale leggenda si riferisce alla caratteristica principale del fiume Alfeo di scorrere quasi interamente sottoterra.

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Ancora oggi il mito rivive nell'isola di Ortigia grazie alla cosiddetta Fonte Aretusa. La leggenda di Alfeo trae origine dal fiume omonimo del Peloponneso, in Grecia, e da una fonte di acqua dolce (detta localmente Occhio della Zillica) che sgorga nel Porto Grande di Siracusa a poca distanza dalla Fonte Aretusa. Oggi il viale che costeggia la Fonte Aretusa si chiama proprio Lungomare Alfeo.
Nello specchio d'acqua della Fonte Aretusa e lungo le rive del fiume Ciane sono presenti gli unici papireti selvatici di tutta l'Europa. Il papiro infatti cresce spontaneo solo in Egitto.



 

Il ratto di Proserpina
Proserpina, figlia di Demetra, dea della vegetazione e dell'agricoltura, viene rapita da Ade, dio degli inferi, che si era invaghito di lei; Ade emerge dall'oltretomba da una grotta situata nel Lago di Pergusa nei pressi di Enna, dove secondo il mito Proserpina era intenta a cogliere fiori. Il dio ghermisce la fanciulla e la porta sul suo carro, mentre le fanciulle che la accompagnavano cercano disperatamente di trattenerla. Proserpina lotta, ma ormai i cavalli stanno già varcando le soglie del regno dei morti.
La madre Demetra, udito il grido della figlia, la cerca affannosamente per nove giorni e nove notti, facendosi luce con due pini accesi nel cratere dell'Etna. Infine, appreso da Elio (il sole) del rapimento, decide di non salire più in cielo finché non avesse riavuto la figlia.
In assenza di Demetra dal suo ruolo, la terra comincia a essere sterile e improduttiva. Allora Zeus, preoccupato, dopo aver tentato invano di convincere Ade a restituire Proserpina alla madre, attua un compromesso: Proserpina sarebbe rimasta con la madre per otto mesi dell'anno (quelli in cui la terra fiorisce e dona agli uomini tutte le sue ricchezze) e con Ade per gli altri quattro mesi (quelli invernali, quando la dea Demetra è triste e la terra è spoglia e improduttiva).

Nella foto, Il ratto di Proserpina di Gian Lorenzo Bernini



 La fata Morgana


Una leggenda ampiamente diffusa in tutta l'area dello Stretto narra che durante le invasioni barbariche in agosto, mentre il cielo e il mare erano senza un alito di vento e una leggera nebbiolina velava l'orizzonte, un'orda di conquistatori, dopo avere attraversato tutta la penisola, giunse alle rive della città di Reggio e si trovò davanti allo stretto che divide la Calabria dalla Sicilia. A pochi chilometri sull'altra sponda sorgeva un'isola - la Sicilia - con un gran monte fumante - l'Etna - e il Re barbaro si domandava come fare a raggiungerla trovandosi sprovvisto di imbarcazioni, quindi impotente davanti al mare. All'improvviso apparve una donna molto bella, che offrì l'isola al conquistatore e con un cenno la fece apparire a due passi da lui. Guardando nell'acqua egli vedeva nitidi i monti, le spiagge, le vie di campagna e le navi nel porto, come se avesse potuto toccarli con le mani. Esultando, il Re barbaro balzò giù da cavallo e si gettò in acqua, sicuro di poter raggiungere l'isola con un paio di bracciate, ma l'incanto si ruppe e il Re affogò miseramente. Tutto infatti era un miraggio, un gioco di luce della bella e sconosciuta donna, che altri non era se non la Fata Morgana.

 







Per concludere, tratto da http://tanogabo.com/leggende-sullorigine-della-sicilia/ la bellissima leggenda sul nome dell'isola.

Il popolo siciliano, forte della sua vivacità spirituale e del suo esuberante carattere, ha trasfigurato in leggende anche l’origine stessa della sua terra definendo la Sicilia come un dono fatto da Dio al mondo in un momento di supremo gaudio.
Pertanto l’isola mediterranea non sarebbe altro che la metamorfosi di un diamante posto da Dio nel mezzo del mare per la felicità del mondo.

Per chi vuole, qui sopra la traduzione. 





I tre promontori, che danno alla Sicilia il suo tipico aspetto triangolare, sarebbero il frutto dell’estro di tre ninfe, che vagavano per il mare prendendo dalle parti più fertili del mondo un pugno di terra mescolata con sassolini.
Le tre ninfe si fermarono sotto il cielo più limpido e azzurro del mondo e, da tre punti ove si erano fermate, gettarono il loro pugno di terra nel mare e vi lasciarono cadere i fiori e le frutta che esse recavano nei veli che le ricoprivano. Il mare, al loro apparire, si vestì di tutte le luci dell’arcobaleno e, a poco a poco, dalle onde emerse una terra variopinta e profumata, ricca di tutte le seduzioni della natura.

I tre vertici del triangolo, dove le tre bellissime ninfe avevano iniziato la loro danza, divennero i tre promontori estremi della nuova isola e si chiamarono capo Faro (Peloro) dal lato di Messina, capo Passero (Pachino) dal lato di Siracusa, e capo Boeo (Lilibeo) dal lato di Palermo.
“Da questa configurazione a tre vertici” scrive Enrico Mauceri “venne alla Sicilia antica il nome di Triquetra o Trinacria che diede, forse in epoca ellenistica, quella rappresentazione strana e caratteristica al tempo stesso, di una figura gorgonica a tre gambe, adottata perfino in alcune monete dell’antichità classica, e divenuta poi il simbolo, diremo così, ufficiale dell’isola“.



 La bellissima principessa Sicilia


Il nome dell’isola è nato da una leggenda, che parla di una bellissima ma sfortunata principessa del Libano, che si chiamava appunto Sicilia. Alla sua nascita le era stato predetto da un oracolo che al compimento dei quindici anni d’età avrebbe dovuto lasciare la propria terra natia, sola e su una barchetta, altrimenti sarebbe stata pasto dell’ingordo Greco-Levante, che le sarebbe apparso sotto le mostruose forme di un gatto mammone, divorandola.
Per scongiurare questo pericolo, non appena compì quindici anni (che così voleva l’oracolo) il padre e la madre, piangenti, la posero in una barchetta, e la affidarono alle onde.
E le onde, dopo tre mesi (ritorna puntualmente il numero 3), quando ormai la povera Sicilia credeva di dover morire di fame e di sete, poiché tutte le sue provviste si erano esaurite, deposero la giovinetta su una spiaggia meravigliosa, in una terra luminosa, calda e piena di fiori e di frutti, colma di profumi, ma assolutamente deserta e solitaria.
Quando la giovinetta ebbe pianto tutte le sue lacrime, ecco improvvisamente spuntare accanto a lei un bellissimo giovane, che la confortò, e le offerse ospitalità e amore, spiegando che tutti gli abitanti erano morti a causa di una peste, e che il destino voleva che fossero proprio loro a ripopolare quella terra con una razza forte e gentile, per cui l’isola si sarebbe chiamata col nome della donna che l’avrebbe ripopolata; e, infatti, si chiamò Sicilia, e la nuova gente crebbe forte e gentile, e si sparse per le coste e per i monti.

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Lasciando da parte le questioni etimologiche (con le quali si è arrivati a congetturare che il termine Sicilia deriverebbe dall’unione delle due voci antiche sik ed elia, indicanti rispettivamente il fico e l’ulivo, e starebbe a significare la fertilità della terra siciliana) c’è da osservare che i due grandi folcloristi che hanno riportato questa leggenda, il Salomone Marino e il Pitrè, hanno concordemente indicato il riferimento culturale, cogliendolo nell’antica favola di Egesta, abbandonata dal padre Ippota su una barchetta affidata alle onde, perché non diventasse preda dell’orribile mostro marino inviato dal dio del mare Nettuno; e che poi, approdata in Sicilia, e sposa di Crìmiso, generò l’eroe Aceste di cui parla Virgilio nel quinto libro dell’Eneide; ma ambedue hanno trascurato il fondamento storico, che è dato dall’accenno all’ingordo Greco-Levante, che avrebbe divorato la povera Sicilia.
Il temibile mostro greco-levantino altro non è che l’impero bizantino, la cui dominazione in Sicilia, protrattasi dal 535 all’827, lasciò un cattivo ricordo nell’isola per il suo avido fiscalismo, tanto che fino a qualche tempo fa si diceva ai bambini cattivi, per farli impaurire: “Vidi ca vénunu i greci!” (Bada che stanno per venire i bizantini).
Il che spiega sufficientemente la genesi storica della leggenda.
Sopra, immagine rappresentante l'esercito bizantino che sbarca in Sicilia comandato da Giorgio Maniace.

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