mercoledì 9 novembre 2016

I carusi

Carusi è un termine siciliano che significa letteralmente "ragazzi": in Sicilia i figli, sia maschi che femmine, secondo l'età venivano detti in successione picciriddi ("bambini", 0-5 anni circa), carusi ("ragazzi", 6-18 anni circa), picciotti ("giovani", 19-30 anni circa: si ricordino i "picciotti garibaldini"). In realtà "Caruso" è usato con il senso italiano di "ragazzo" in provincia di Catania, di Messina nelle Madonie e a Gela, "picciotto" nelle altre zone dell'isola.

In passato, a causa delle disagiate condizioni economiche, le famiglie mandavano a lavorare i ragazzi ben presto, per renderli fonte di sia pur magro guadagno e per dare loro un mestiere; diventavano "garzoni" o "apprendisti". Il lavoro e l'apprendistato dei ragazzi avvenivano da contadini, muratori, fornai, fabbri, falegnami, ciabattini, barbieri, minatori, dovunque ci fosse da  svolgere un'attività remunerativa. 

Carusu deriva dall'espressione latina carens usu che significa "mancante d'esperienza", anche se una volta c'era la consuetudine di rasare completamente la testa dei giovanissimi lavoratori e tale tipo di taglio veniva definito, in siciliano, carusu.


 
Soprattutto le famiglie più povere mandavano i figli a lavorare nelle solfare; i carusi impiegati nelle solfare venivano arruolati con una tipologia di contratto chiamato soccorso morto. Lavoravano, nelle buie gallerie delle solfare, dall'alba al tramonto in piccoli gruppi alle dipendenze del picconiere che li aveva "arruolati", senza alcun rispetto per la loro integrità e salute fisica. 



Il fenomeno del lavoro minorile è stato a lungo diffuso in tutta Italia: nello specifico, il termine caruso era riferito ai minorenni del meridione d'Italia, dopo l'unità.
Secondo la legislazione dell'epoca, era illegale far lavorare un minore di 12 anni, anche perché una (allora) recente legge stabiliva che la scuola dovesse essere obbligatoria per i bambini fino alla terza elementare. Questa normativa veniva, comunque, violata. In genere la situazione di sfruttamento era gestita da lavoratori adulti, che prendevano i carusi come assistenti. Ai genitori dei carusi veniva corrisposto un pagamento anticipato di circa 100, 150 lire. La paga dei carusi era, però, di pochi centesimi al giorno, quindi la situazione di semi-schiavitù poteva protrarsi per anni.


 
Le condizioni di lavoro erano dure e inaccettabili secondo i criteri odierni di sicurezza; il rispetto dei diritti umani, dell'infanzia e dei lavoratori era minimo se non nullo. L'orario di lavoro poteva arrivare a sedici ore giornaliere e i poveri sfruttati potevano subire maltrattamenti e punizioni corporali se accusati di furto (il più delle volte la colpevolezza era inesistente), o di scarso rendimento.
Immagine trovata qui, sito interessante.


Al tema dello sfruttamento minorile si rifà un'opera del pittore siciliano Onofrio Tomaselli, intitolata proprio I Carusi, del 1905, che si riferisce in particolare all'impiego di giovani braccia nelle solfare siciliane. 




Il racconto di Giovanni Verga, Rosso Malpelo, descrive accuratamente le condizioni di vita dei carusi di miniera. Solo alla metà del XX secolo questa situazione di sfruttamento si attenuerà, per cessare negli anni fra il 1967 ed il 1970. Nei processi effettuati negli anni cinquanta sono emerse testimonianze raccapriccianti contro gli sfruttatori. In un incidente di miniera, in una sola volta, sono morti centocinquanta carusi e sulla stele che li ricorda ben ventotto sono senza nome.


Anche il racconto Ciàula scopre la Luna in Novelle per un anno di Pirandello tratta la storia di un caruso di miniera, che per la prima volta vede la luna nella notte, di cui aveva sempre avuto paura. 






Il primo film del regista siciliano Aurelio Grimaldi intitolato La discesa di Aclà a Floristella analizzava proprio l'allucinante vita di un povero caruso, sfruttato e abusato nella miniera di Floristella.
La discesa di Aclà a Floristella - di Aurelio Grimaldi (Italia,1992)
Sinossi
Aclà, un ragazzo siciliano di undici anni, viene ‘acquistato’ da Rocco Caramazza per lavorare in qualità di “caruso” in una miniera di zolfo. Per otto anni, dal lunedì al sabato, Caramazza disporrà a suo piacimento del ragazzo, il quale si trova improvvisamente sottratto alla sua numerosa famiglia e catapultato in una realtà dove dominano la fatica fisica, la coercizione, il terrore, la violenza punitiva e quella sessuale, accettata quasi per tacita intesa.
Aclà si mostra insofferente verso la dura legge della zolfara: dopo l’ennesimo pestaggio nei suoi confronti, l’undicenne fugge alla ricerca di quel mare che, nella sua concezione geografica, lo separa dalla sorella residente in Australia, terra alla quale aspira come una sorta di liberazione dalla violenta logica che lo lega al mondo della miniera. Ma la fuga di Aclà è destinata a fallire miseramente: riacciuffato dai carabinieri, viene riportato a casa dove subisce la violenza del padre. Per Aclà riprende la dura vita lavorativa, mentre il mare si presenta soltanto come immagine onirica.

Il sacrario del Cimitero dei Carusi ricorda una data ben precisa, il 12 Novembre del 1881 alle 6 del mattino, in cui la miniera di Gessolungo (Caltanissetta) fu funestata da una delle più grandi sciagure accadute nelle miniere di zolfo siciliane. Per uno scoppio di grisou perirono ben 65 lavoratori tra operai e tecnici. 120 minatori furono investiti da un violento incendio causato dallo scoppio innescato dalla fiamma di una lampada ad acetilene. 55 minatori, anche se feriti, riuscirono a uscire e mettersi in salvo. Per 65 di loro, invece, la fine fu istantanea mentre altri sedici perirono in ospedale a causa delle gravi ferite riportate. Venti giorni dopo la sciagura furono recuperati 49 corpi di cui 19 di “carusi” (bambini dagli 8 ai 14 anni). Ben 9 di questi rimasero senza un nome. 


Fu così profonda la commozione popolare che si decise per la sepoltura dei disgraziati in un cimitero costruito per l’occasione nei pressi della zolfara nissena, oggi recuperato e noto come “cimitero dei carusi”, in memoria delle tante vittime delle miniere.


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