3 ottobre: Gerace e Pentedattilo.
4 ottobre: mattinata libera e poi rientro a casa.
Durante il trasferimento in pulmann verso Gerace la guida ci parla delle principali località che incontriamo.
Capo dell'Armi (o Capo d'Armi) è un promontorio sito a Lazzàro, frazione di Motta San Giovanni, in provincia di Reggio Calabria. Costituisce il limite sud-orientale dello Stretto di Messina. Una rupe
rocciosa che si eleva sul mar Jonio caratterizza il territorio, la cui
aspra morfologia è in netto contrasto con quella più dolce del
territorio adiacente. La rupe si erge ripida dalle acque del mare fino a
superare i 134 m s.l.m. con una parete a strapiombo, la cui unica
soluzione di continuità è costituita dalla Strada statale 106 Jonica, scavata proprio all'interno della roccia. Caratteristica peculiare del promontorio roccioso sono le sue cave di pietra reggina
(nota anche come pietra di Lazzàro). Il promontorio è archeologicamente
rilevante grazie al rinvenimento di numerose tracce della presenza dei
primi cristiani. Nei pressi di Capo dell'Armi vennero anche alla
luce i resti di una villa romana appartenuta probabilmente al patrizio
Publio Valerio e menzionata anche da Cicerone. Fu ritrovata anche una
stele con inscrizioni latine di epoca imperiale.
La Pietra Reggina, Pietra di Lazzàro, è una roccia sedimentaria calcarea, molto utilizzata in edilizia, in particolar modo a Reggio Calabria, dove viene usata per gran parte dell'arredo urbano fin dal I millennio a.C.
Melito di Porto Salvo è
il comune più a sud della Calabria e dell'Italia continentale, escluse
le isole. Secondo gli storici locali la località era sicuramente abitata
in epoca tardo-romana, anche se la conferma di tale
assunto è data solamente dal ritrovamento nella parte più antica (presso
la collinetta Calvario) di una necropoli del V-VI secolo d.C.
Secondo la storia popolare,
nel 1600 un quadro con l'effigie della Vergine Maria è stato trovato
sulla spiaggia, giunto dal mare e ritrovato da marinai di quel tempo. Il
quadro fu tenuto nei pressi del ritrovamento, in una edicola posta dove
oggi sorge una nicchia, e poi fu portato nella Chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Pentedattilo
(foto) durante i lavori di costruzione del Santuario dedicato alla
Madonna; per un antico voto del marchese Domenico Alberti fu deciso che
il quadro della Madonna ritorni a Pentedattilo ogni 25 marzo di ogni
anno per poi scendere l'ultimo Sabato del mese di Aprile. Con
l'eversione della feudalità le terre di Melito e Pentedattilo furono
acquistate dai Ramirez, famiglia di origine spagnola
che intensificò la produzione agricola introducendo agrumeti e vigneti,
dunque colture più pregiate come quella del bergamotto.
Nella seconda metà del XIX secolo
fu ultimato il trasferimento di tutte le istituzioni civili e religiose
da Pentedattilo a Melito.
Sulla spiaggia melitese di Rumbolo
il 19 agosto 1860 avvenne lo sbarco dei Mille di Giuseppe Garibaldi,
che dopo aver occupato la Sicilia puntava alla conquista delle terre
del Regno borbonico "al di qua del Faro". Nella foto, Casina Ramirez, dove Garibaldi soggiornò subito dopo lo sbarco; in alto a destra il colpo di cannone della nave borbonica Fulminante.
Siamo nella Bovesìa, nota anche come area grecofona:
è un'area geografica della provincia di Reggio Calabria, ellenofona,
localizzata attorno ai monti di Bova. La zona è culla secolare della
minoranza linguistica ellenofona di Calabria. Il
versante Jonico meridionale dell'Aspromonte custodisce infatti immutate
le tracce della sua antica natura di crocevia sul bacino del
Mediterraneo. Quest'area ha assunto per molti secoli il ruolo di vera e
propria isola e roccaforte culturale per una serie di
motivi come la precarietà storica dei collegamenti ed un entroterra
particolarmente impervio. L'isola ellenofona si estende oggi
principalmente lungo la vallata della grande fiumara dell'Amendolea, in provincia di Reggio. I paesi sorgono a circa 15 km dalla costa, generalmente tutti su monti un tempo di difficile accesso e solcati da burroni, quindi dominati dal versante sud dell'Aspromonte. (Bova e Stilo fanno parte de I Borghi più belli d'Italia).
La Bovesìa, come tutta la provincia di Reggio Calabria, si caratterizza anche per il microclima particolarmente dolce, unico al mondo che consente la coltura del bergamotto.
Lungo i letti delle fiumare e sulle colline, tra le altre coltivazioni
si stagliano i campi profumati di questo agrume, soprannominato l'Oro Verde, dal quale si estrae l'olio essenziale che è esportato in tutto il mondo per le sue proprietà di donare una nota estremamente fresca alle composizioni di profumeria.
Brancaleone era chiamato
in passato Sperlonga o Sperlinga, denominazione che fu poi sostituita
con Mottaleonis, composto da motta (rialzo) e leone, probabilmente con
senso metaforico.
E' stata definita "città delle tartarughe di mare" perché sulle sue spiagge, così come su quelle dei comuni vicini, depone le uova la Caretta caretta, facendo di questo tratto di costa l'area più importante di deposizione in tutta l'Italia.
Gerace, che conserva ancora oggi un'impostazione e un fascino medievale, si trova all'interno del Parco nazionale dell'Aspromonte e fa parte de I Borghi più belli d'Italia. Il centro urbano, in particolare il borgo antico, è ricco di chiese, palazzi d'epoca e vani, un tempo abitazioni o botteghe, scavati direttamente nella roccia.
La storia di Gerace affonda le sue radici nella presenza di antichi stanziamenti preistorici e protostorici dei quali rimangono diverse testimonianze. Presso Contrada Stefanelli è stata ritrovata una Necropoli di età preellenica. Conosciuta dai greci e dai romani, con i bizantini e i normanni
assume un ruolo importantissimo nell’economia del controllo del
territorio per la sua eccezionale posizione strategica. La storia di
Gerace è però strettamente collegata a quella di Locri Epizephiri.
Il nucleo abitativo, infatti, si sviluppa solo in seguito all'abbandono
della città di Locri, avvenuto a partire dal VII secolo d.C., a causa
del sempre maggiore pericolo piratesco e la sempre crescente insalubrità delle coste.
Dopo un periodo di subordinazione a Locri
Epizefiri e ai Romani, cominciò a ripopolarsi con l’arrivo dei Bizantini
e il trasferimento dei vescovi dalla ormai abbandonata Locri. Più volte
assalita dai saraceni non fu mai saccheggiata, pagando un forte tributo per evitare l'invasione.
Nel 2015 conquista il 7º posto tra i 20 borghi più belli d'Italia. Dalla sua posizione arroccata, Gerace gode di un'ampia e panoramica visuale su gran parte del territorio della Locride.
Il nome Gerace deriverebbe secondo alcuni studiosi da una corruzione del greco "aghia kiriaka" (Santa Ciriaca) mentre per altri dal termine "Ierax" che vuol dire sparviero. Narra infatti un'antica leggenda
che nel 915 uno sparviero guidò sul pianoro i superstiti dell'eccidio
avvenuto a Locri in seguito ad una tremenda incursione dei Saraceni. Lo stemma comunale, a testimonianza di ciò, reca ancora oggi come simbolo uno sparviero.
Il castello fu edificato probabilmente durante il VII secolo d.C.; la sua esistenza è testimoniata nel X secolo d.C. quando fu devastato insiema alla città dai bizantini. Con la venuta dei normanni, intorno al 1050, fu ristrutturato e fortificato. Nei secoli successivi subì le devastazioni di alcuni catastrofici terremoti.
Di esso rimangono una grande torre e poche mura, in parte ricavate
dalla roccia e in parte si ergono a picco sui burroni circostanti.
La città è posta su di una rupe, a 470 m. s. m., di arenarie mioceniche
all'estremità sud-est del lungo tavolato che congiunge le Serre
all'Aspromonte e dista circa 10 km dalla costa jonica; era
circondata anticamente da solide mura turrite e da porte che ne delimitavano l’accesso. Delle dodici porte ne sono sopravvissute soltanto quattro: Porta dei vescovi o della Meridiana, prossima alla Cattedrale, Porta Santa Lucia, Porta Maggiore e Porta del sole (nella foto). La struttura urbana è disposta su tre nuclei fondamentali: Borgo Maggiore, Borgo Minore e Città Alta.
Ci serviamo del trenino turistico che fa un giro panoramico del paese, raccontando la storia di Gerace, svolgendo anche servizio di navetta per i turisti che come noi raggiungono la città in pulmann.
I sontuosi palazzi che abbelliscono Gerace sono quasi sempre forniti di portali in pietra lavorata da scalpellini locali e, pur, essendo spesso frutto di restauri ottocenteschi, a seguito dei danni causati alla città dal terremoto del 1783, ripetono spesso volumetrie proprie di una fase medievale (XIII-XV secolo); non è raro trovare, infatti, finestre bifore, archi a sesto acuto e finestre strombate.
La ricca storia dell'arte
della città può essere letta lungo le sue piazzette, i suoi vicoli, i
muri delle sue case e i suoi palazzi storici, ma anche e soprattutto
dalle numerose chiese monumentali edificate nel corso della sua lunga storia. Si dice che in città siano esistite ben 128 Chiese; alla fine del '700 se ne contavano circa 43, ma col terremoto del 1783 esse si ridussero a 17. Di queste, molte si trovano in uno stato di quasi abbandono. Arriviamo in Piazza delle Tre Chiese: la chiesa del Sacro Cuore di Gesù ne occupa un lato. Fu costruita sull’antico impianto dell’edificio dedicato a S. Stefano
col nome di S. Maria della Sanità. Distrutta durante il terremoto del
1783, venne riedificata a cura della Confraternita del Sacro Cuore e di
Maria SS. del Rosario nel 1851 (tuttora operante), sotto quest’ultimo
titolo. Il portale e la facciata sono in stile barocco.
La seconda è la chiesa di San Giovanni Crisostomo, detta anche di San Giovannello,
in pietra e mattoni, a navata unica, edificata attorno al X secolo.
Attualmente di rito greco ortodosso, consacrata il 5 novembre 1991 quale
Santuario Ortodosso Panitalico della Sacra Arcidiocesi Ortodossa
d'Italia, è considerata la più antica Chiesa Ortodossa d'Italia;
infine la terza è la chiesa di San Francesco d'Assisi, antichissimo luogo di culto dichiarata "bene architettonico" di interesse nazionale, importante edificio in stile gotico della Calabria. Costruita nel 1252 sulle rovine di un preesistente edificio romanico, si presenta a navata unica e faceva parte di un antico convento, fondato nei primi anni del XIII sec. da Daniele, compagno di san Francesco.
La struttura, di dimensioni ragguardevoli ma di forme estremamente semplici, è strettamente legata alle esperienze artistiche non solo francescane ma, principalmente angioine,
con la necessità di realizzare architetture ecclesiastiche semplici e,
pertanto, denuncianti la necessità, da parte della Chiesa cattolica, di
ritornare all'integrità del messaggio evangelico. Il monumentale ingresso è sottolineato da un portale gotico databile agli anni ’30 del XIV secolo, presumibilmente di spoglio, a triplice archivolto con decorazioni di chiara ispirazione arabo-normanna.
Ci accoglie il custode, mostrando fieramente la chiave originale del portale, e ci farà da guida appassionata per tutta la visita dell'interno.
L’interno dell’edificio si presenta composto da almeno due parti, assolutamente indipendenti tra loro, corrispondenti ad altrettanti luoghi di diverso significato e uso: un'aula rettangolare di 27 metri coperta da un tetto a capriate, illuminata da una serie di finestre a lancetta sui lati lunghi e sul lato corto occidentale, senza alcuna decorazione architettonica, scultorea o pittorica;
l'arco trionfale del 1664, in stile barocco e decorato con intarsi in marmi poilicromi, opera del frate geracese Bonaventura Perna, che mette in comunicazione l’aula con il presbiterio
e il fastoso altare maggiore seicentesco in marmi policromi intarsiati,
che costituisce uno dei più alti documenti del barocco calabrese,
databile agli anni sessanta del Seicento e realizzato per volontà del
frate Bonaventura Perna. L'altare è decorato con formelle realizzate con marmi provenienti dalla vicina cava di Prestarona, che riproducono sia elementi fitomorfi che forme zoomorfe e paesaggistiche.
Dettaglio dell'altare.
Oltre la parete diaframma dell'altare maggiore si trova il coro quadrangolare, che ospita il sarcofago di Nicola Ruffo di Calabria, datato 1372 e realizzato da maestranze provenienti da botteghe napoletane attive presso la corte angioina.
La concattedrale di Santa Maria Assunta è una delle più importanti costruzioni normanne
della Calabria e uno degli edifici religiosi più grandi della regione.
La storia della chiesa è un susseguirsi di danneggiamenti e crolli, che
culminano con il terremoto del 1783, a cui seguono
accurati lavori di restauro e periodi di rinascita. E' stata dichiarata
"bene architettonico" di interesse nazionale.
Dall’esterno l’edificio appare come una fortificazione per l’imponente parete in pietra calcarea dalla quale sporgono due delle tre absidi semicilindriche. Sull'abside centrale si apre un portale ligneo
del XIX secolo ad archi concentrici, sormontato da una finestra. Quella
sinistra, di diametro inferiore, presenta invece una lunga feritoia.
L’adiacente Arco dei Vescovi
fu eretto verso la fine del ‘500 e aveva la funzione di dare maggior
fasto all’ingresso dei presuli neo-eletti provenienti, sul dorso di
un’asina bianca, dalla chiesa di S. Martino. Sulla sommità vi è una
caratteristica meridiana tuttora funzionante con lo stemma del vescovo attuale. Oltrepassato l’arco, a settentrione si nota subito la terza abside primitiva.
In stile bizantino-normanno, nonostante
le modifiche e i rifacimenti conserva la purezza delle linee originarie,
in cui le caratteristiche delle cattedrali normanne si fondono all’impianto bizantino. La struttura è divisa in due parti sovrapposte risalenti a periodi differenti, di cui una corrispondente alla cripta e l'altra alla Basilica vera e propria.
La parte inferiore della Cattedrale, di chiara costruzione bizantina, comunica con una serie di grotte
scavate nella roccia risalenti al VIII secolo (quando Gerace era Santa
Ciriaca), che costituiscono il nucleo originario della prima chiesa rupestre bizantina. Ha pianta a croce greca irregolare e una copertura a crociera poggiante su 26 colonne di spoglio provenienti da ville di età imperiale (o forse da un tempio in situ).
Tra queste grotte quella degna di nota corrisponde alla cappella della Madonna dell'Itria, piccolo ambiente ricavato nel 1261 da una chiesa rupestre, con volta a botte e decorazioni in marmo, pavimentata con maioliche geracesi del XVII secolo; lungo le pareti la serie dei "seggi dei canonici" realizzati in marmo rosa e nero, con bassorilievi sugli schienali che rappresentano i titoli attribuiti alla Madonna nelle litanie.
Il Sacello della Madonna dell’Itria è chiuso da un magnifico cancello in ferro battuto seicentesco, eseguito senza alcuna saldatura da maestranze provenienti da Serra San Bruno. Sull’altare è posta la statua marmorea della Madonna di Prestarona, probabilmente legata alla scuola di Tino da Camaino e databile all'inizio del Trecento. Anticamente qui era collocata un’icona raffigurante la Vergine dell’Itria, secondo la leggenda ritrovata in una cassa sulle rive del mare antistante.
La Cripta ospita nella cappella di san Giuseppe un primo nucleo museale contenente oggetti preziosi che fanno parte del Tesoro della Cattedrale
e altri manufatti che provengono dalle chiese di S. Martino, S.
Anna, Carmine e Sacro Cuore. Tra i tesori custoditi vanno menzionati:
una stauroteca (custodia del sacro legno) in argento
dorato, pietre dure e perline fabbricata probabilmente a Gerusalemme o
nei laboratori normanni siciliani nel XII sec., un grande ostensorio ottocentesco in argento dorato e ornato da pietre dure, un calice in filigrana e pietre dure, datato 1726 e opera di argentieri siciliani, una statua dell'Assunta in argento realizzata nel 1722.
La basilica superiore è, invece, una grande struttura a tre navate separate da due file di dieci colonne, scanalate o lisce, in marmo policromo e granito, tutte diverse tra loro per qualità e dimensioni, che provengono dalle ville della Locri scomparsa. Le colonne sono interrotte al centro da due pilastri a T e sormontate da capitelli di diversa forma.
La mensa ecumenica in tufo bianco è stata consacrata nel 1995 dal vescovo Bregantini (vescovo di Locri-Gerace dal 1994 al 2007) con il Metropolita greco-Ortodosso Spiridione in uno spirito di fraterno ecumenismo come è possibile leggere nelle scritte in greco e in latino: “INA OSIN EN – UT UNUM SINT” - “Che siano una cosa sola”.
La basilica superiore è, invece, una grande struttura a tre navate separate da due file di dieci colonne, scanalate o lisce, in marmo policromo e granito, tutte diverse tra loro per qualità e dimensioni, che provengono dalle ville della Locri scomparsa. Le colonne sono interrotte al centro da due pilastri a T e sormontate da capitelli di diversa forma.
La mensa ecumenica in tufo bianco è stata consacrata nel 1995 dal vescovo Bregantini (vescovo di Locri-Gerace dal 1994 al 2007) con il Metropolita greco-Ortodosso Spiridione in uno spirito di fraterno ecumenismo come è possibile leggere nelle scritte in greco e in latino: “INA OSIN EN – UT UNUM SINT” - “Che siano una cosa sola”.
La chiesa fu consacrata
al culto nel 1045 (data riportata su due targhe affisse all'interno
della chiesa, secondo quanto si legge nel Bollario del vescovo Ottaviano
Pasqua di fine sec. XVI). In epoca sveva, nell'anno 1222, si ebbe una seconda consacrazione, probabilmente alla presenza dell'imperatore Federico II di Svevia, che si trovava di passaggio a Gerace.
A lato, dettaglio di una finestra del cortile (non è la targa citata, ma mi piaceva e l'ho fotografata).
La sosta pranzo è poca distanza da Gerace, in un paesaggio suggestivo, tra ulivi millenari, dove si trova il ristorante-pizzeria Il Lupo Cattivo. Ricavato da un antico frantoio, conserva intatto il fascino del luogo: in un'atmosfera d'altri tempi, è possibile gustare i piatti della cucina locale e nazionale. Vengono proposti gli antipasti della casa, con salumi, formaggi e frittelline locali e primi piatti a base di pasta fatta a mano, secondo le antiche ricette calabresi.
Pentedattilo è una frazione del Comune di Melito Porto Salvo posto a 250 metri s.l.m. ; sorge arroccato sulla rupe del Monte Calvario, dalla caratteristica forma che ricorda quella di una ciclopica mano con cinque dita, da cui deriva il nome: penta + daktylos = cinque dita. Sfortunatamente alcune parti della montagna sono crollate ed essa non presenta più tutte e cinque le "dita", ma rimane comunque un posto pieno di mistero, uno dei centri più caratteristici dell'Area Grecanica. Quello che era l'antico paese è risultato, dagli anni sessanta fino a pochi anni or sono, quasi del tutto abbandonato: la popolazione era infatti stata costretta da un decreto di sgombero resosi necessario per le continue minacce naturali, terremoti, crolli delle rocce e alluvioni, a spostarsi a valle, formando un nuovo piccolo centro dal quale si poteva ammirare il vecchio paese fantasma.
Nel borgo sta risorgendo una serie di attività: artigiani locali hanno aperto alcune botteghe per la vendita dei propri prodotti, c'è un ristorante e un piccolo museo. Il parziale ripristino ha compreso il rifacimento della pavimentazione della stradina principale e il restauro di alcuni edifici.
La storia di Pentedattilo è lunga e travagliata. Colonia calcidese nel 640 a.C., fu per tutto il periodo greco-romano un fiorente centro economico della zona; durante il dominio romano divenne inoltre un importante centro militare per la sua strategica posizione di controllo sulla fiumara Sant'Elia, via privilegiata per raggiungere l'Aspromonte. Con la dominazione bizantina iniziò un lungo periodo di declino, causato dai continui saccheggi che il paese subì prima da parte dei Saraceni ed in seguito anche da parte del Duca di Calabria. Nel XII secolo Pentedattilo fu conquistato dai Normanni e trasformato in una baronia affidata alla famiglia Abenavoli Del Franco dal re Ruggero d'Altavilla. Passò poi alla nobile famiglia reggina dei Francoperta e infine venduto alla famiglia degli Alberti insieme al titolo di marchesi. La dominazione degli Alberti, nonostante i tragici eventi legati alla cosiddetta Strage degli Alberti, durò fino al 1760 quando il feudo fu venduto ai Clemente, già marchesi di San Luca, e da questi ai Ramirez nel 1823.
Nella seconda metà del XVII secolo il paese di Pentedattilo fu teatro di un crudele misfatto noto come Strage degli Alberti, riportato alla luce dal romanzo di Andrea Cantadori "La tragedia di Pentidattilo".
Protagonisti di questa vicenda furono i membri di due nobili famiglie; quella degli Alberti, marchesi di Pentedattilo, e quella degli Abenavoli, baroni di Montebello Ionico ed ex feudatari di Pentedattilo.
Fra le due famiglie per lungo tempo vi era stata un'accesa rivalità
per questioni relative a confini comuni; tuttavia verso il 1680 le
tensioni fra le due casate sembravano andare scemando sia per pressioni
del Viceré, che intendeva pacificare la zona, sia perché il capostipite
della famiglia Abenavoli, il barone Bernardino, progettava di prendere in moglie Antonietta, figlia del marchese Domenico Alberti.
Nel 1685 il marchese Domenico morì e gli succedette il figlio Lorenzo, che alcuni mesi dopo la morte del padre sposò
Caterina Cortez, figlia del Viceré di Napoli. In occasione di tale
matrimonio da Napoli giunse in Calabria un lungo e sontuoso corteo che
comprendeva, oltre alla sposa, il Viceré con la moglie e il figlio Don Petrillo Cortez.
Don Petrillo ebbe quindi occasione di conoscere Antonietta e, rimasto
dopo le nozze con la madre a Pentedattilo, causa una sua improvvisa
malattia, ebbe l'occasione di frequentarla e di innamorarsene; chiese
dunque a Lorenzo di poter sposare Antonietta ed il marchese Alberti
acconsentì alle nozze della sorella.
La notizia del fidanzamento ufficiale fra Don Petrillo Cortez e Antonietta Alberti mandò su tutte le furie il barone Bernardino Abenavoli che, ferito nei sentimenti e nell'orgoglio, decise di vendicarsi su tutta la famiglia Alberti. Nella notte del 16 aprile 1686
Bernardino, grazie al tradimento di Giuseppe Scrufari, servo infedele
degli Alberti, si introdusse all'interno del castello di Pentedattilo
con un gruppo di uomini armati. Giunto nella camera da letto di Lorenzo,
lo sorprese durante il sonno sparandogli due colpi di archibugio e finendolo con 14 pugnalate.
In seguito, assieme ai suoi uomini, si lanciò all'assalto delle varie stanze del castello uccidendo
gran parte degli occupanti compreso Simone Alberti, fratellino di 9
anni di Lorenzo, mortalmente sbattuto contro una roccia. Da tale
massacro furono risparmiati Caterina Cortez, Antonietta Alberti, la
sorellina Teodora, la madre Donna Giovanna e Don Petrillo Cortez, preso
in ostaggio come garanzia contro eventuali ritorsioni del Viceré verso gli Abenavoli.
Dopo la strage Bernardino trascinò nel suo
castello a Montebello Ionico l'ostaggio Don Petrillo Cortez e l'amata
Antonietta, che sposò il 19 aprile 1686. La notizia
della strage in pochi giorni giunse al Governatore di Reggio, quindi al
Viceré Cortez che inviò una vera e propria spedizione militare.
L'esercito, sbarcato in Calabria, attaccò il Castello degli Abenavoli,
liberò il figlio del Viceré e catturò sette degli esecutori della strage
(compreso lo Scrufari), le cui teste furono tagliate ed appese ai merli del castello di Pentedattilo.
Il barone Abenavoli,
grazie a vari espedienti e appoggi, riuscì a sfuggire alle truppe del
Viceré insieme ad Antonietta e, dopo aver affidato la moglie ad un
convento, scappò prima a Malta ed in seguito a Vienna dove entrò
nell'esercito austriaco. Nominato capitano, fu ucciso da una palla di
cannone durante una battaglia navale il 21 agosto 1692.
Antonietta Alberti, il
cui matrimonio con Bernardino fu annullato dalla Sacra Rota nel 1690
perché contratto per effetto di violenza, finì i suoi giorni nel convento di clausura
di Reggio Calabria, consumata dal dolore e dell'angoscia di essere
stata lei l'involontaria causa dell'eccidio della sua famiglia.
Nella foto, i ruderi del castello.
La storia della Strage degli Alberti nel corso dei secoli ha dato origini a varie leggende e dicerie. Una di queste afferma che un giorno l'enorme mano si abbatterà sugli uomini per punirli della loro sete di sangue. Un'altra dice che le torri in pietra
che sovrastano il paese rappresentano le dita insanguinate della mano
del barone Abenavoli (per questo motivo Pentedattilo è stata più volte
indicata come "la mano del Diavolo"). Un'altra infine
narra che la sera, in inverno, quando il vento è violento tra le gole
della montagna si riescono ancora a sentire le urla del marchese Lorenzo Alberti, mentre nelle sere di sola luna piena, si possono udire lamenti
provenire dall'alto della montagna: probabilmente si tratta dei morti
che, dall'aldilà, reclamano vendetta. E molte altre ce ne sarebbero da
raccontare...
La Chiesa dei santi Pietro e Paolo, eretta nel primo Seicento, fu il punto di riferimento della cultura grecanica
di Pentidattilo per qualche decennio, prima di passare al rito latino a
metà del XVII secolo: a questo periodo risalgono anche i primi lavori
di ristrutturazione, dovuti principalmente all’adozione del nuovo rito. In seguito venne più volte rimaneggiata a causa di interventi di ampliamento e di riparazione per i sismi che interessarono la zona,soprattutto quello del 1783. Il campanile
è a base quadrata, a due ordini, in linea con la facciata della
chiesa e il cui pinnacolo, ottagonale, è ricoperto da ceramiche.
A partire dagli Anni Settanta ha seguito la sorte
del resto di Pentedattilo vecchia, divenuta un paese fantasma per via
dello spostamento più a valle della popolazione residente. Dopo secoli
di centralità, ha vissuto decenni di abbandono e vandalismo, che comportarono il furto di opere d’arte
di grande valore, finite in chissà quali collezioni private, ma anche
di decorazioni strutturali (furono divelte intere pavimentazioni). Oggi è
possibile ammirare opere pittoriche ispirate agli originali trafugati,
che cercano di ripristinare l’antica atmosfera della Chiesetta, come la
tela con la riproduzione dell’Assunzione di Maria Vergine, sull'altare principale, che ora esiste grazie a una riproduzione tratta da una vecchia foto a colori.
La Chiesa conserva la tomba della famiglia Alberti,
di cui ho parlato più sopra per la storia/leggenda che da secoli
pervade il borgo misterioso di Pentedattilo e il suo castello. Sulla
tomba è inciso lo stemma della famiglia.
Il piccolo Museo delle Tradizioni Popolari è allestito tra alcuni antichi edifici; si possono ammirare oggetti e materiali tipici della tradizione contadina, tra i quali un antico telaio per preparare coperte con i filati della ginestra.
Salutiamo i numerosi gatti che hanno trovato tranquilla e serena dimora tra le mura del borgo incantato
diamo un'ultima occhiata al paesaggio fantastico circondato da fichi d'india
e ce ne torniamo al pulmann, che
ci riporta in albergo, ultima notte di gita. Il 4 ottobre infatti è
dedicato alla visita individuale di Reggio e al volo di rientro a casa.
Si chiude quindi qui anche questa bellissima gita.
Alla prossima!
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