sabato 24 giugno 2017

Gita in Calabria - Seconda parte - Rossano e Corigliano

28 settembre: Rossano Calabro, Corigliano Calabro e rientro a Rende.

Nel tragitto che ci separa da Rossano Calabro, nostra prossima tappa, la guida ci parla un po' di Rende e delle città che si incontrano sul percorso.


Il Castello Normanno di Rende fu costruito nel 1095 per ordine di Boemondo d'Altavilla, che lo elesse come propria base prima di partire per la prima crociata nel 1096. Era l'inizio di un progetto più ampio ipotizzato anni prima da Roberto il Guiscardo, padre di Boemondo, che voleva realizzare una linea difensiva nella valle del Crati con roccaforti a Bisignano, Montalto Uffugo, Rende e Cosenza.


La particolare morfologia del colle dove fu eretto il "Gigante di Pietra" garantiva una postazione estremamente facile da difendere; i ripidi pendii, che si stagliano verso l'alto a formare un cuneo, garantirono una tale sicurezza che si ritenne superflua la realizzazione di un fossato e del ponte levatoio. Il castello fu invece fornito di piccole finestre e molte feritoie, dalle quali potevano essere usati archi e balestre; inoltre fu realizzata sotto il cortile esterno una enorme cisterna per la raccolta dell'acqua piovana che garantiva un sicuro approvvigionamento durante gli assedi.
Foto storica del castello del 1911.


Il Santuario di Maria Santissima di Costantinopoli, nel centro storico di Rende, ha per gli abitanti del paese un alto significato religioso e sociale. Fu edificato nel XVII secolo e rimaneggiato nel 1700. Secondo la tradizione la statua della Madonna di Costantinopoli mise fine all’epidemia di peste che a metà del XVII secolo aveva duramente colpito il paese.

Montalto Uffugo è parte integrante dell'area urbana cosentina. Sorge probabilmente sull'antica Aufugum ed è nota perché il compositore Ruggero Leoncavallo, all'età di 5 anni, vi si trasferì con la famiglia. Durante l'adolescenza Ruggero assistette proprio a Montalto a un tragico avvenimento nel chiostro dell'allora convento domenicano: durante una rappresentazione teatrale, la sera del 5 marzo 1865, il domestico di casa Leoncavallo, Gaetano Scavello, fu assassinato dai fratelli D'Alessandro. Da questo evento il compositore prese ispirazione per la composizione dell'opera Pagliacci.

Non si conoscono con esattezza quali furono gli albori della città di Bisignano; alcuni storici antichi, come il Barrio, raccontano che il fondatore fu Bescio, il quale condusse Aschenez, pronipote di Noè, fino in Calabria, dandole il nome di Bescia, che i Greci e i Romani cambiarono in Besidia. Altri storici, invece, fanno risalire le origini agli Ausoni. Certamente nel IV secolo a.C. Bisignano era una delle principali città della Confederatio Bruttiorum.

Fra le attività artigianali che un tempo erano svolte nella città e che in qualche modo sono sopravvissute all'evoluzione tecnologica, sono degne di nota le arti della liuteria, le lavorazioni del ferro e quelle della ceramica e delle terrecotte. Nel settore degli strumenti musicali merita una citazione particolare la chitarra battente, di origini antichissime, che è considerato lo strumento caratteristico calabrese.
Nella foto, chitarra battente calabrese costruita da Costantino de Bonis.

San Marco Argentano è un centro urbano di antica storia, lungo la Valle del Crati in una zona collinare, fra i più importanti centri artistici e culturali della provincia di Cosenza. Eduardo Bruno, scultore e studioso di storia, ha avanzato l'ipotesi che proprio da Argiro (Argentanum in epoca romana) si ricavasse l'argento per la coniazione delle monete sibarite.

San Marco può fregiarsi del titolo città normanna, perché non solo essa fu ripopolata, fortificata e resa in pratica una piccola "capitale" da Roberto il Guiscardo, nel 1050, ma i suoi feudatari successivi furono tutti Normanni, dall'XI al XVII secolo, tranne forse una parentesi nel periodo Svevo. La dinastia reale normanna termina, come è noto, alla fine del XII secolo quando subentrano gli Svevi.

La Torre (detta di Drogone) è una testimonianza del primo insediamento normanno in Calabria. Voluta da Roberto il Guiscardo nell’anno 1048 sulle rovine di un’antica fortificazione romana, è formata da un enorme tronco di cono detto rivellino alto m.18.  La fortezza, alta ventidue metri, ha un diametro di tredici metri e mezzo ed è suddivisa in cinque piani ad ambienti circolari.
 



La Piana di Sibari è stata bonificata e resa coltivabile negli anni sessanta dando vita a una discreta attività agricola (agrumi, oliveti, risaie), che è la principale risorsa economica, oltre al turismo. I comuni del territorio sono: Corigliano Calabro, Rossano, Castrovillari, Cassano all'Ionio (di cui fa parte anche la frazione di Sibari), Trebisacce, Villapiana, Terranova da Sibari, Cerchiara di Calabria. 

Clementine è ritenuto un ibrido naturale tra il mandarino Avana e l’arancio amaro, selezionato da Padre Clemente Rodier, da cui deriva il nome del frutto, nel 1900-1902 a Misserghim nei pressi di Orano in Algeria. Intorno agli anni ‘60,  grazie alla particolare vocazionalità di alcune aree, la coltivazione si è ampiamente sviluppata e diffusa in Calabria.
La fruttificazione del Clementine è, infatti, fortemente dipendente dalle condizioni climatiche degli ambienti di coltivazione e si esprime al meglio nelle zone a clima mite e regolare senza eccessivi sbalzi termici, caratteristiche tipiche del territorio calabrese e in particolare della Piana di Sibari, in cui la diffusione di quest’agrume è stata agevolata dalla proprietà dei suoi terreni, ricchi di elementi silicei e con un fattore ph neutro.

Il parco di Torre Mordillo nel territorio del comune di Spezzano Albanese, sorge su di un’altura che si affaccia sulla piana di Sibari a circa 1 km dalla confluenza dei fiumi Esaro e Coscile. La particolare e privilegiata ubicazione dell’altopiano alla confluenza dei due fiumi ha caratterizzato e favorito la sua occupazione, in un lungo arco temporale, dalla Protostoria all’età ellenistica e fino all’epoca medioevale, rappresentando un punto nodale di controllo lungo gli assi di collegamento tra la costa ionica e tirrenica.

Circostanze del tutto casuali portarono alla scoperta del sito. Tra la fine del 1887 e gli inizi del 1888 il Prof. Luigi Viola, allora Direttore del Museo Archeologico di Taranto,  diede inizio ad una ricognizione con lo scopo preciso di individuare il territorio ove era sorta l’antica Sibari, nota all’epoca solo dalle fonti letterarie. Fu così che si imbatté in una vasta area di necropoli dell’Età del Ferro che, pur in assenza di documentazione puntuale dell’epoca, oggi individuiamo sulle pendici orientali e occidentali dell’altopiano di Torre Mordillo. Qui furono riconosciute oltre 300 sepolture ad inumazione dell’Età del Ferro, anche se quelle catalogate ammontano a 229, in gran parte ascrivibili alla fase del Primo Ferro (fine XI-metà VIII a.C.). 

Sìbari fu un'importante città della Magna Grecia sul mar Ionio, affacciata sul golfo di Taranto, fondata tra due fiumi, cui i coloni diedero il nome di Crati e Sìbari, alla fine dell'VIII secolo a.C. da un gruppo di Achei provenienti dal Peloponneso. Nel 510 a.C., dopo una guerra durata 70 giorni, i Crotoniati conquistarono la città, deviarono il fiume e la sommersero. Nel 444-443 a.C. ci fu la fondazione panellenica di Thurii, dal nome di una fonte nelle vicinanze. In seguito Thurii fu assoggettata dai Lucani. La città ridusse la sua rilevanza e nel 193 a.C. i Romani vi fondarono una colonia, cui diedero nome Copia.
Nella foto, scavi archeologici.
 

Rossano trae il suo nome dal greco rusion, ("che salva") e akron, ("promontorio", "altura") da cui derivano le versioni medioevali Ruskia o Ruskiané o Rusiànon; secondo un'altra ipotesi invece deriverebbe dal nome di una famiglia romana alla quale potrebbe essere stato affidato il governo del "Castrum" e che avrebbe dato il nome di "Roscianum" al centro urbano.

Si presume sia stato fondato dagli enotri intorno all'XI secolo a.C., passò sotto il controllo magno-greco (VII-II secolo a.C.) e successivamente divenne l'avamposto romano nel controllo della piana di Sibari e nell'infruttuoso tentativo di conquista dei territori montuosi della Sila, allora occupati dai bruzi. Nel II sec. l'imperatore Adriano vi costruì un porto capace di accogliere 300 navi. Tra il 540 ed il 1059 Rossano visse una fase di grande splendore sociale, artistico e culturale sotto il dominio dei bizantini: la sua posizione strategica la rese appetibile meta di conquista da parte di numerosi invasori (visigoti, longobardi, saraceni) ma non fu mai espugnata.
Importante centro politico-amministrativo dell'impero di Bisanzio, in qualità di centro militare nel 951-952 fu sede dello stratego e si guadagnò il titolo, ancor oggi in uso, de "La Bizantina". Le numerose testimonianze artistiche ed architettoniche di quel periodo le valsero inoltre l'appellativo di "Ravenna del Sud".

A partire dagli anni 50 del '900, la città, come altre in Calabria, essendosi sviluppata in passato nell'entroterra per proteggersi al meglio dai nemici, con la nascita della stazione ferroviaria ha cominciato ad espandersi verso la zona costiera. Col passare del tempo, la zona costiera della città si è evoluta sempre di più, dando spazio ad un abitato costituito prevalentemente da edifici moderni e condomini. Questa situazione ha portato i residenti ad abbandonare la parte più antica del paese, il vero e proprio centro storico, per andare a vivere nella zona più moderna e densamente abitata. Il comune si divide infatti in “Rossano paese”, la città storica ricca di arte e cultura greco bizantina e “Rossano scalo”, più giovane e moderna affacciata sul mare e staccata dalla prima da pochi chilometri e da un dislivello di circa 400mt. 

La visita del centro storico comincia da Piazza Santi Anargiri, l’agorà della città antica. Il nome deriva dal greco agioi anárgyroι, santi senza argento. I santi sono Cosma e Damiano, due medici che prestarono la loro opera senza mai chiedere retribuzione.

In una sola occasione era stata elargita ai santi una ricompensa, tre uova nelle mani del fratello minore Damiano, da parte di una contadina, Palladia, miracolosamente guarita. Cosma era rimasto tanto deluso e mortificato da esprimere la volontà che le sue spoglie fossero deposte, dopo la morte, lontane da quelle del fratello che aveva accettato il dono.

Durante le persecuzioni dei cristiani promosse da Diocleziano (284 - 305) i fratelli furono fatti arrestare dal prefetto di Cilicia, Lisia. Avrebbero quindi subito un feroce martirio, così atroce che su alcuni martirologi è scritto che essi furono martiri cinque volte. I supplizi subiti da Cosma e Damiano differiscono secondo le fonti. Secondo alcune furono dapprima lapidati, ma le pietre rimbalzarono contro i soldati; secondo altre furono crudelmente fustigati, crocefissi e bersagliati dai dardi, ma le lance rimbalzarono senza riuscire a fare loro del male; altre fonti ancora narrano che furono gettati in mare da un alto dirupo con un macigno appeso al collo, ma i legacci si sciolsero e i fratelli riuscirono a salvarsi, e ancora incatenati e messi in una fornace ardente, senza venire bruciati. Furono quindi decapitati, assieme ai loro fratelli più giovani (o discepoli), Antimo, Leonzio ed Euprepio, nella città di Cirro, nei pressi di Antiochia. Dopo il loro martirio, coloro che avevano assistito vollero dare degna sepoltura ai fratelli che tanto bene avevano elargito in vita, cercando anche di rispettare la volontà di Cosma circa la separata sepoltura: ciò fu loro impedito da un cammello che, secondo la leggenda, prese voce, dicendo che Damiano aveva accettato quella ricompensa solo perché mosso da spirito di carità, onde evitare che quella povera donna potesse sentirsi umiliata dal rifiuto. I presenti diedero dunque sepoltura ai loro corpi deponendoli l'uno a fianco dell'altro. 


Al centro di piazza Matteotti c'è la statua in onore di S.Nilo, protettore della città, realizzata dall'artista Carmine Cianci, alle cui spalle sorge un edificio, adibito un tempo a mercato coperto, oggi sede della Polizia Municipale.
Nilo da Rossano, battezzato con il nome di Nicola, è detto anche Nilo il Giovane (Rossano, 910 – Tusculum, 26 settembre 1004); è stato monaco basiliano, eremita, abate, amanuense e fondatore dell'abbazia di Santa Maria di Grottaferrata. Frequentò la scuola annessa alla chiesa di Rossano, divenendo un eccellente calligrafo e innografo; si appassionò alla lettura delle Sacre Scritture e della vita dei Padri del deserto; si ritirò nell'eparchia del Mercurion, lungo il corso del fiume Lao nei pressi dell'odierna Orsomarso (un'area ai confini fra Lucania e Calabria). Qui fu allievo di San Fantino e si dedicò alla vita contemplativa e alla carità; raccolse e copiò numerosi codici. Essendo alla ricerca continua di una maggiore perfezione di spirito si ritirò in un recondito eremo e in una caverna dove c'era un altare consacrato a san Michele Arcangelo vicino a Mercurion.




Piazza Steri, in cui si trova la fontana di San Nilo realizzata dal più grande scultore del novecento, Pericle Fazzini.


Quando cala la sera, tra il 24 e 25 aprile, il centro storico di Rossano torna a rivivere la magica notte dei “Fuochi di San Marco”, una tradizione che si tramanda dal 1836, quando la terrà tremò così forte da spingere gli abitanti a scendere in strada, accendere grandi falò per riscaldarsi dal gelo della notte, condividendo con vicini e passanti cibo e vino. E da allora la tradizione si rinnova.

Il Museo diocesano e del Codex, inaugurato nel 1952 per volere dell'arcivescovo Giovanni Rizzo, fu il primo museo diocesano ad essere istituito in Calabria. La struttura museale nacque all'interno di alcuni locali ricavati dalla sagrestia della cattedrale di Maria Santissima Achiropita. Nel corso degli anni, per poter dare un adeguato spazio alle opere d'arte esposte, si decise di ristrutturare un'ala del Palazzo arcivescovile. I lavori, avviati nel 1985, si sono conclusi nel 2000, quando la nuova sede, composta da dieci sale, venne inaugurata dall'arcivescovo Andrea Cassone. 

Tre sale del museo sono dedicate all'opera più importante, l'Evangelario miniato bizantino noto come Codex Purpureus Rossanensis, un manoscritto in greco antico del VI secolo, riguardante il Nuovo Testamento; di origine mediorientale (Antiochia di Siria), fu portato a Rossano probabilmente da qualche monaco in fuga dall'oriente durante l'invasione araba (secc. IX-X) 
Il 9 ottobre 2015, il Codex Purpureus Rossanensis è stato ufficialmente riconosciuto dall’UNESCO di Parigi Patrimonio Universale dell’Umanità, nella categoria “Memory of the World”. Vedi anche qui.

Una sala è dedicata all'esposizione del manoscritto originale, custodito, al centro della stanza, in una super-teca protetta e ventilata, con la sala a temperatura costante di 18 gradi per permettere al prezioso libro in pergamena di poter essere esposto alla sua temperatura naturale. Al fianco della teca è presente un totem che consente di "sfogliare" digitalmente le pagine del Codex grazie all'uso di uno schermo touch-screen su cui sono state caricate le immagini acquisite in precedenza tramite delle scansioni effettuate dall'originale; lo schermo touch-screen è collegato ad un altro schermo che consente al pubblico di poter ammirare ogni singolo dettaglio delle preziose miniature contenute all'interno di uno dei vangeli miniati più antichi al mondo.
Fu ritrovato nel 1879 all'interno della sacrestia della Cattedrale di Maria Santissima Achiropita di Rossano da Adolf von Harnack e pubblicato subito dopo da Oscar von Gebhardt; è composto di 188 fogli di pergamena (31x26 cm) contenenti il Vangelo secondo Matteo e il Vangelo secondo Marco (quest'ultimo con la lacuna 16,14-20), oltre ad una lettera di Eusebio a Carpiano sulla concordanza dei vangeli. È scritto in caratteri onciali, ossia in lettere maiuscole greche o maiuscole bibliche, su due colonne di 20 righe ciascuna. Le prime tre linee, all’inizio dei Vangeli, sono in oro e il resto in argento; le parole non recano accenti, né sono tra di loro separate, né compaiono segni di interpunzione, tranne i punti che segnano la fine dei periodi. Deve l'aggettivo "Purpureus" al fatto che le sue pagine sono rossastre (in latino purpureus). 



Le miniature conservate nel codice di Rossano sono quattordici. Di esse, dodici raffigurano eventi della vita di Cristo, una fa da titolo alle tavole dei canoni andate perdute, e l’ultima è un ritratto di Marco, che occupa l’intera pagina.








Il Museo racchiude al suo interno due musei, quello diocesano e quello del Codex. All'ingresso il visitatore troverà un corridoio: a sinistra si va nelle sale riservate al Codice Purpureo, a destra nel  Museo diocesano, composto da sei sale espositive, dove è possibile rivivere le fasi storiche della diocesi e del suo territorio.
In una di queste c'è una statua di legno scolpita e dipinta che raffigura san Nilo, patrono di Rossano, con l'abito nero basiliano, che con la mano sinistra regge il modellino della città mentre, con la mano destra, porta il bacolo di abate. La statua, alta 108 centimetri, ha uno stile tardo settecentesco ma molto probabilmente è stata realizzata nei primi dell'Ottocento per via della torre dell'orologio raffigurata nella miniatura della città di Rossano. La torre, situata in piazza Steri, fu realizzato nel 1809.


La cattedrale di Maria Santissima Achiropita fu eretta nell'XI secolo, con successivi interventi nel XVIII e XIX; è il principale monumento architettonico della città, con pianta a tre navate e tre absidi. La torre campanaria e la fonte battesimale risalgono al XIV secolo mentre gli altri decori datano tra il XVII e il XVIII secolo. La chiesa è famosa per l'antica immagine della Madonna Achiropita, di datazione probabile tra il 580 e la prima metà dell'VIII secolo.

 
L’immagine si trova in una nicchia al lato destro della navata centrale, su un altare in pietra di Cipro, decorato con marmi policromi e circondato da una balaustra. Si tratta di un affresco su un frammento di colonna, venerata fin dal XII secolo col titolo di ACHIROPITA, cioè "non dipinta da mano umana". 

La leggenda
(tratta da "L.Bilotto" - Itinerari culturali della provincia di Cosenza)
Un eremita di nome Efrem, mentre era raccolto in meditazione e preghiera in una delle numerose laure eremitiche attorno a Rossano, incontrò un profugo di Costantinopoli; si trattava di un uomo di sangue reale, al quale era stato usurpato il trono della bella città sul Bosforo; anzi era stato addirittura vittima dell’ostracismo dell’imperatore e dei suoi concittadini. Ma Efrem lo tranquillizzava predicendogli che le cose in patria stavano cambiando. Allora l’infelice esule promise che, se tornando a Costantinopoli avesse realmente trovato una situazione a lui favorevole, egli sarebbe tornato ad edificare proprio in quella grotta, una chiesa da dedicare alla Madonna; anzi, per mantenere fede a quanto detto, lasciò in pegno un prezioso anello. Quando Maurizio tornò in patria, poti constatare che le parole dell’eremita calabrese erano state profetiche, ma le incombenze sempre più pressanti della sua corte gli fecero dimenticare le promesse fatte. Dopo qualche tempo, Efrem ritenne di dovere affrontare un lungo viaggio per andare a riferire al suo vecchio conoscente che la parola data doveva essere mantenuta; fu così che si recò a Costantinopoli e restituì l’anello a Maurizio con lo scopo di rendere ancor più umiliante e mortificante il suo gesto. L’imperatore, rammentando quei tristi giorni, fece un atto riparatore veramente sensazionale: allestì una flotta carica di materiali da costruzione ed ogni sorta di artisti, artigiani e maestranze per edificare una chiesa nella grotta ove aveva trovato Efrem.
Ad opera compiuta si verificava un fatto strano: mentre veniva dipinta una Madonna su una parete della chiesa, l’indomani, il dipinto spariva e lasciava il posto ad una immagine della stessa Vergine, completamente diversa da quella precedente. L’ultimo affresco della serie, raffigura, infatti, un bambino rinchiuso di notte nella cattedrale col compito di sorvegliare l’opera del pittore e di riferire su qualche movimento fuori dall’ordinario. Al giovane, invece, apparve la Madonna, segno che era lei stessa a dipingere la sua immagine. Ecco che al terzo pilastro sinistro della navata maggiore, è posto un affresco, restaurato nel 1929, raffigurante la Madonna Achiropita (non dipinta da mano umana). L’opera è corredata da un altare di marmo in stile barocco, con paliotto e tabernacolo con fregi ed angeli, composto tra il 600 ed il 700.

Sorta nell’XI-XII secolo su una preesistente chiesa bizantina, la Cattedrale ha inglobato nella sua struttura l’antica edicola votiva della Madonna Achiropita, a cui poi la chiesa è stata dedicata. Visitata nel 1193 dal re Tancredi, nel XIV secolo venne ampliata nella parte absidale e successivamente rimaneggiata con altri significativi interventi di rifacimento. Nel XVII secolo venne aggiunta una quarta navata riccamente affrescata, destinata a cappelle devozionali. Dall’originario stile gotico normanno-svevo, si è passati pertanto ad uno stile composito che, pur alterando l’antica architettura, non ha intaccato la primitiva solennità e bellezza. 


L’interno, diviso in tre navate da una fuga di pilastri rettangolari con rivestimento marmoreo dei primi del ‘900, presenta una copertura lignea a cassettoni, costruita in due fasi diverse: nel XVI secolo quella centrale, nel XVII secolo quella delle navate laterali. Nell’abside dell’Altare Maggiore è illustrata, in sei affreschi, la storia dell’Icona Achiropita. Sulla volta con tetto ligneo dorato si nota il rilievo dell’Assunta e l’Incoronazione della Vergine, mentre in due lunette appaiono i Santi Rossanesi Nilo e Bartolomeo.

 
Di pregevole fattura sono i mosaici, residuo dell’antico pavimento dell’area presbiteriale, risalente al XII secolo, in cui vi risaltano elementi del Bestiario con i simbolismi tipici dell’arte normanna. Opere d’arte degne di nota sono: il coro ligneo (XIX secolo), il pulpito marmoreo (1753), un organo a canne (1622), l’altare marmoreo di S. Nilo con ciborio intarsiato. 






La facciata, distrutta dal terremoto del 1836, fu rifatta in due tempi da Mons. Tedeschi (1833-34) e da Mons. Cilento (1844-88). La lapide sul portale d’ingresso ricorda il fatto. Il portale rinascimentale è sormontato da una statua dell’Assunta tra due Angeli in bassorilievo. In alto, sui pinnacoli sono poste le statue dei Santi Rossanesi Nilo e Bartolomeo.

 
Nel 1455 l’Arcivescovo Lagonessa aprì la porta sulla navata laterale, detta Porta Piccola, in splendido gotico. 










A sinistra del corpo di fabbrica è affiancato il campanile, anch’esso ricostruito da Mons. Cilento dopo il terremoto del 1836. All’esterno si nota l’affrescodi S. Cristoforo, opera di Capobianco, mentre la copertura a cupola è rivestita da marmette gialle e verdi.




Si è fatto tardi e dobbiamo andare per inserire una piccola ma graditissima tappa non prevista al Museo della liquirizia Amarelli, che gentilmente ci accoglie ben oltre l'orario di apertura. Il museo si trova in una residenza quattrocentesca, da sempre residenza e stabilimento produttivo della famiglia Amarelli, che dal 1731 produce liquirizia famosa in tutto il mondo. 


La liquirizia (Glycyrrhiza glabra) è una pianta alta fino a un metro e appartiene alla famiglia Fabaceae;  l'estratto vegetale è ottenuto dalla bollitura della sua radice. E' una erbacea perenne rustica, cioè resistente al gelo e cresce principalmente in terreni calcarei e/o argillosi. La pianta sviluppa un grosso rizoma da cui si estendono stoloni e radici, lunghi fino a due metri. Rossano è una terra che offre la sua zona costiera per far crescere indisturbate e in abbondanza le famose radici di liquirizia: l’ “oro nero” di Rossano.



La liquirizia era una pianta importante nell'antico Egitto, in Assiria e in Cina, era già nota nell'antica medicina greca ma solo nel XV secolo è stata introdotta dai frati domenicani in Europa. Come risulta dal primo erbario cinese, in Asia la liquirizia è utilizzata da circa 5.000 anni ed è una delle piante più importanti. I medici cinesi la prescrivono per curare la tosse, i disturbi del fegato e le intossicazioni alimentari. La moderna ricerca cerca di trarne vantaggio per nuove prospettive terapeutiche: terapia dell'ulcera, malattie croniche del fegato, e prevenzione di gravi malattie autoimmuni. 


Della liquirizia vengono usate le radici di piante di tre-quattro anni, raccolte durante la stagione autunnale ed essiccate. Il principio attivo più importante della liquirizia è la glicirrizina che ha un'azione antinfiammatoria e antivirale. Inoltre è più dolce del saccarosio.
Nella foto, radici appena scaricate nella fabbrica Amarelli.


La Calabria vanta una centenaria tradizione nella produzione di liquirizia e ne è la maggior produttrice. Risale al 1500 l’idea di commercializzare i rami sotterranei della liquirizia, che cresce in abbondanza nel latifondo della costa ionica calabrese. Nel 1731 la famiglia Amarelli dà vita ad un impianto proto-industriale per trasformare in succo le radici della pianta.

Nascono così le liquirizie, nere, brillanti, di liquirizia pura e gommosa, confetti, sassolini, cioccolatini e liquori sempre alla liquirizia. Per raccontare questa storia la famiglia ha aperto il Museo della Liquirizia “Giorgio Amarelli”, insignito del “Premio Guggenheim Impresa & Cultura
 
e celebrato dalle Poste Italiane con un francobollo della serie tematica “Il patrimonio artistico e culturale italiano”, emesso in 3.500.000 di esemplari. 

Dopo un'ultima fotografia di una delle opere storiche della fabbrica, rigorosamente di liquirizia, ci rechiamo al punto vendita (dove ovviamente ci riforniamo alla grande) per poi lasciare questo interessante museo e recarci a pranzo.

Ci rimettiamo in viaggio e la guida ci informa che a soli 9 Km da Corigliano Centro si trova il borgo marinaro della Schiavonea, rinomata località turistico-balneare. Schiavonea nacque come borgo di pescatori e approdo, identificata, prima del 1583, con la Torre del Cupo, edificio a due piani di forma quadrangolare con rientranze centrali utilizzato come punto d'avvistamento e di difesa costiera, parte integrante delle strutture fortificate calabresi del XVI secolo. La Torre è di notevole interesse storico e artistico per il ruolo svolto nelle vicende militari degli apprestamenti anticorsari e per il successivo ruolo di magazzino (nota anche come "Taverna") di proprietà prima delle ricche famiglie nobiliari dei Sanseverino prima e dei Saluzzo poi. 


Nel 1615 i pescatori che vivevano nella zona costiera detta Cupo (l'attuale Schiavonea), erano in continuo pericolo per le invasioni dei Turchi, così costruirono una chiesetta dedicata a San Leonardo, protettore degli schiavi, per celebrare le messe nei giorni festivi.
Tra il personale della Torre del Cupo vi era un'umile sentinella a cavallo di nome Antonio Ruffo. Nella notte del 23 agosto 1648, durante il suo turno di guardia nelle vicinanze della Chiesa di S.Leonardo, gli apparve la Vergine Santissima, seduta su di un seggio sul mare, con le braccia distese; dichiarò di essere la Madonna della Schiavonea. Gli chiese di far dipingere una Sua effigie da venerare nella vicina chiesetta di San Leonardo, in riva al mare.


Fu dato incarico ad un pittore di Corigliano, un certo Scamardella, di dipingere un ritratto della Vergine apparsa. Il pittore iniziò il suo lavoro nella chiesetta di S.Andrea, sotto la direzione dello stesso Antonio Ruffo il quale gli indicava i particolari della posizione della Madonna, della foggia e dei colori dell'abito. Inspiegabilmente, e secondo qualcuno anche improvvisamente, si trovò il viso della Vergine completato con arte veramente sublime: era il volto di una Madonna Nera


In seguito, sulla chiesa di San Leonardo, nel 1649 fu costruito l’attuale Santuario della Madonna di Schiavonea, ad opera del duca Agostino Saluzzo che voleva offrire un luogo più idoneo al quadro miracoloso della Vergine.

Le origini di Corigliano sarebbero da riportare all'epoca dell'incursione araba del 977 da parte dell'emiro di Palermo, al Quasim, quando alcuni abitanti della Terra di Aghios Mavros (ossia San Mauro, nei pressi dell'attuale frazione di Cantinella) si spostarono in luoghi più elevati, determinando lo sviluppo del piccolo villaggio di Corellianum. Dopo la conquista normanna, a Roberto il Guiscardo viene attribuita nel 1073 la fondazione di un castello, con annessa chiesa dedicata a San Pietro. Nel XIV secolo fu sotto il dominio dei conti di Sangineto per passare in seguito ai Sanseverino. Un arresto dello sviluppo si ebbe nel XV secolo, a causa del continuo stato di guerra tra Angioini e Aragonesi. Nel 1538 la città riuscì a respingere l'attacco del pirata saraceno Barbarossa. Nel 1616, per ripianare i debiti lasciati dal Sanseverino, il governo dispose la vendita dei suoi beni feudali e tra questi Corigliano, che fu acquistato da Agostino e Giovan Filippo Saluzzo, ricchi finanzieri impegnati nelle attività economiche del Regno di Napoli. I Saluzzo alienarono i loro beni coriglianesi nel 1828 al barone Giuseppe Compagna, (1780-1834),che abilmente ricompose nelle mani proprie e dei suoi eredi Luigi (1823-1872) e Francesco (1848-1925), il potere economico che era stato dei duchi.


La Chiesa di Sant’Antonio di trova all’ingresso di Corigliano Calabro ed è l’unico edificio religioso del paese ad essere dotato di una cupola, realizzata nello stile di quelle partenopee e ricoperta di maioliche in giallo e azzurro. Costruita nella prima metà del Quattrocento da Antonio Sanseverino, conte di Corigliano, la chiesa venne donata insieme con l’annesso convento  ai Frati Minori Conventuali di S. Francesco d’Assisi. Nel 1740 subì un importante restauro che le consegnò l’aspetto attuale e il secolo successivo i Borboni affidarono chiesa e convento ai Liguorini. 
Percorriamo via Roma diretti al Castello Ducale e vediamo una struttura che richiama un acquedotto romano: è in realtà un acquedotto, ma costruito dagli artigiani locali. Secondo la leggenda la città era priva di rifornimenti idrici e si serviva di cisterne per la raccolta dell'acqua piovana, nonostante le montagne circostanti fossero ricche di ruscelli, che però non si riusciva a far deviare verso la città. Nel 1458 giunse in Corigliano l'Eremita Francesco da Paola, per fondarvi il suo Convento e gli abitanti chiesero il suo aiuto. Quello che poi sarebbe diventato uno dei santi più venerati della Calabria compì un miracolo: colpendo la roccia con un bastone ne fece scaturire l'acqua tanto attesa, la convogliò verso la città, dove venne costruito l'acquedotto. L'opera, chiamata Ponte Canale, offre ancora oggi alla vista la sua maestosità.

Una foto storica.

La Chiesa di San Pietro, in prossimità del Castello Ducale, sarebbe stata costruita secondo una leggenda da San Marco Evangelista nel 45 d.C.. Secondo alcune fonti storiche, invece, sarebbe stata costruita da Roberto il Guiscardo a seguito dell’edificazione del castello. Molti sono stati nei secoli gli interventi subiti dall’edificio, che ne hanno mutato radicalmente l’aspetto originale, tanto che oggi la facciata presenta uno stile neo-classico diviso in due livelli da un grosso cornicione. Interessante è il portale decorato con una sima (sopracornice triangolare), mentre in alto spicca l’affresco dei Santi Pietro e Paolo. L’interno, a tre navate, presenta decorazioni molto sobrie in cui domina il marmo chiaro. Molto interessante il fonte battesimale ricavato nella pietra. 


L'origine del castello di Corigliano Calabro è legata alla figura di Roberto il Guiscardo (Roberto d'Altavilla), il re normanno d'aspetto gigantesco, che nel 1073 volle la costruzione di un fortilizio vicino Rossano nell'ambito della linea di difesa realizzata in Valle Crati tra il 1064 e il 1080. Malgrado i radicali lavori di ristrutturazione (compiuti a partire dal 1490) abbiano cancellato quasi del tutto le tracce di questo primitivo edificio fortificato, si può ritenere che la base dell'attuale Mastio risalga a questa epoca storica.
Nella foto, la Torre Mastio che coincide con il primitivo nucleo risalente al 1073. La torretta ottagonale è invece seicentesca.



Definito come uno "fra i castelli più belli e meglio conservati esistenti nell'Italia meridionale", l'abbiamo visitato anche se un po' di corsa e ho preso un sacco di appunti, ma in rete si trova già tutto (Qui c'è un blog molto bello) per cui mi limito a qualche punto saliente. Sui bastioni, all'ingresso, ci sono gli stemmi dei casati dei vari proprietari: quando ne cambiava uno, si spostava semplicemente a destra lo stemma, che veniva sostituito da quello nuovo. Nella foto, lo stemma dei Saluzzo.


Il Rivellino costituiva la prima costruzione fortificata avanzata, posta a difesa della porta principale e collegata a questa dal ponte levatoio. Anticamente a due piani, nella seconda metà dell'800 venne fatto modificare dai Compagna in modo che si potesse ammirare il panorama.

Molto curioso l'avvertimento "Qui non si concede asilo"  che troviamo inciso su una sorta di lastra di pietra al primo piano, dove siamo saliti per raggiungere il piano ammezzato, parte della visita. 

Oggi il Castello Ducale è un Museo nel quale è possibile visitare:
• Il piano Ammezzato, in cui si trovano le prigioni, le cucine ottocentesche in ghisa e la Santabarbara;

 
• Il piano Nobile, dove visitare:
- le stanze signorili affrescate e arredate con il mobilio di un tempo;
- la stanza della baronessa, dove si nota la culla ai piedi del letto
- la sala da pranzo imbandita con ceramiche d’epoca sulle quali troneggia un meraviglioso lampadario in ferro battuto;

 
- il salone degli specchi che deve il suo nome alla presenza di grandi specchi appesi alle pareti incorniciati da rifiniture in stucco dorato e coperti ai lati da preziosi broccati. La stanza è impreziosita dai lampadari in cristallo di Boemia e dal soffitto dipinto con effetti trompe-l’oeil.


• La torre Mastio, primo nucleo del maniero, che si sviluppa su cinque livelli, quattro dei quali, collegati da una scala in ghisa costruita da maestri Napoletani, sono interamente affrescati dall’artista Girolamo Varni.





Nel nostro giro abbiamo anche visto la bellissima cappella dedicata a sant'Agostino, che venne iniziata nel 1650 dal Barone Giacomo Saluzzo e continuata dal figlio Agostino, primo duca di Corigliano. La cappella ha forma ottagonale, per meglio adattarsi alla forma circolare della torre in cui venne costruita.
L’altare, in marmo bianco e intarsi in nero e arancio, è impreziosito da tre pale ad olio inserite in una ricca cornice in legno dorata, disegnata, in stile gotico, da Emilio Franceschi.






 

Al centro, la Madonna delle Rose, o Salve Regina, è stata realizzata dal Morelli nel 1872 ed è una delle sue opere giovanili. Ai lati della Madonna, altre due pale più piccole raffigurano Sant’Antonio Abate e Sant’Agostino. Nell’800 il barone Luigi Compagna aveva incaricato il pittore fiorentino Girolamo Varni di affrescare la cupola della cappella con scene dell’Antico Testamento, che però rimasero coperte da un manto di pittura rosa fino all’ultimo restauro; Morelli pretese infatti dal barone che venisse coperto l’affresco dell’intera cupola per paura che il visitatore potesse distogliere lo sguardo dalla sua opera.


Nella stanza che precede la cappella sono conservati un piccolo organo a canne e un confessionale, entrambi ottocenteschi. 










Si chiude qui la nostra lunga giornata e rientriamo a Rende. La cronaca continua in altra pagina.

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