30 settembre: Pizzo Calabro, Madonna di Piedigrotta e Costa degli Dei.
Pizzo (anche nota come
Pizzo Calabro) è un comune della provincia di Vibo Valentia; è un borgo
sulla costa, arroccato su un promontorio al centro del Golfo di Sant'Eufemia, di fronte all'isola di Vulcano. Il suo territorio comprende una costa frastagliata, contraddistinta da spiagge sabbiose in alcuni tratti e da scogli in altri.
Il golfo di Sant'Eufemia, anche conosciuto come golfo di Lamezia Terme, è situato sulla costa tirrenica calabrese; è abbastanza pescoso e vi si praticava la pesca del tonno
che oggi è principalmente allevato. Anticamente il golfo veniva
chiamato Sinus Lametinus, Napitinus, Hipponiates e Taerineus (dalla
città greca di Terina).
La sua posizione, unita al fatto che insieme al golfo di Squillace disegna il più stretto istmo d'Europa, ha comportato un ruolo importante nella storia, tanto da essere narrato da Omero (la terra dei Feaci); un tratto di costa che vi si affaccia è infatti detta costa dei Feaci.
Dove si innalza il masso tufaceo su cui nasce e si sviluppa Pizzo, la costa diventa rocciosa con numerose calette e zone ricche di scogli naturali, nonché diverse grotte. Il nome
Pizzo (punto sporgente) si attaglia perfettamente al promontorio che
sporge sul mare, elevandosi dalla foce del fiume Angitola, fino alla spiaggia della Marina.
Come per molte altre località calabresi, nei secoli scorsi è stata cercata una origine nell'antica Magna Grecia, con qualche eroe eponimo, ma ci sono notizie certe dell'esistenza di un forte e di un borgo solo a partire dal 1300, e dell'esistenza della comunità di monaci Basiliani, mentre restano tracce nel territorio di un'antica attività di pesca, specialmente al tonno.
Andiamo a vedere la chiesetta di Piedigrotta sul lungomare di Pizzo.
La chiesetta di Piedigrotta, scavata nelle rocce sedimentarie di origine marina, è situata un chilometro a nord di Pizzo, in località "La Madonnella".
Al suo interno sono presenti diversi gruppi scultorei, anch'essi della
stessa roccia. La chiesa è contigua alla spiaggia, e quando i raggi del
sole penetrano nelle profondità delle grotte mettono in risalto le
colorazioni dei sali minerali che ricoprono le pareti.
Si narra che verso la fine del 1600, un
veliero che navigava nel Golfo di Sant’Eufemia si trovò in mezzo a una
violenta tempesta. I marinai, tutti di Torre del Greco, fecero voto a Maria SS. di Piedigrotta il cui quadro si trovava nella cabina del comandante, di erigere una cappella votiva
nel punto dove avrebbero toccato terra in caso di salvezza. La nave
naufragò violentemente contro gli scogli e andò in pezzi. I marinai si salvarono tutti
e il quadro della madonna venne ritrovato intatto sulla spiaggia.
Fedeli alla promessa, i marinai scavarono nella roccia una buca e vi
depositarono il quadro, ripromettendosi di tornare e realizzare una
cappella votiva. I pescatori locali, temendo che venisse rubato,
prelevarono il quadro e lo portarono in una grotta poco distante edificando un piccolo altare. Al seguito di un'altra burrasca il mare invase la grotta e riportò il quadro
in prossimità del punto dove era stato posizionato la prima volta. I
pescatori decisero quindi di scavare meglio la prima grotta e vi
realizzarono anche una torre campanaria comprendente la campana della nave naufragata, datata 1632.
Tra la fine del 1800 e l'inizio del 1900 Angelo Barone, affascinato dai racconti dei pescatori, ampliò
la grotta preesistente realizzando una chiesa. Durante la dura fase di
scavo, ebbe cura di lasciare alcuni blocchi di roccia che
successivamente trasformò in statue, raffigurando scene delle Sacre Scritture. I lavori continuarono fino alla sua morte, nella primavera del 1915.
Curioso dettaglio di un pesce, che si vede anche nella foto precedente.
Il figlio Alfonso volle continuare il lavoro del padre e ampliò ulteriormente la chiesa, realizzando altre statue e bassorilievi. Affrescò anche i soffitti della navata e della semicupola sopra l'altare, oggi purtroppo rovinati.
Agli inizi del 1960 la chiesetta subì gravi danni per il vandalismo di un ragazzotto che sfregiò e decapitò molte statue. Nel 1969 lo scultore Giorgio Barone,
nipote dei due artisti citati, di ritorno dal Canada per rimanere
qualche settimana nei posti della sua infanzia, vedendo lo scempio
compiuto, decise di fermarsi e restaurò in parte le statue; scolpì anche
due medaglioni raffiguranti Papa Giovanni XXIII e John Kennedy.
Vediamo ora alcuni particolari, anche se la scelta delle foto da proporre non è facile, essendo tutto assolutamente fantastico.
Subito a sinistra, poco dopo l'ingresso, c'è la cappella della Madonna di Pompei
con un altare su cui è posto il bassorilievo della Madonna; davanti, il
Sacerdote che celebra la Messa, Angeli e fedeli inginocchiati.
In un'altra grotta è rappresentata la natività,
con al centro Gesù in braccio a Maria, San Giuseppe, i pastori in
adorazione, il bue e l’asinello; in fondo, il paesaggio arabo con i Re Magi che giungono sui loro cammelli.
Proprio di fronte all'ingresso c'è l'altare maggiore, con il soffitto affrescato e il quadro salvato dal naufragio.
A sinistra dell'altare è anche rappresentata la parabola di Gesù della moltiplicazione dei pesci: Gesù è tra gli apostoli e, ai suoi piedi, una donna seduta con delle ceste di pesci.
In una grotta c'è una statua in gesso della Madonna di Lourdes con Bernardette inginocchiata. A destra, il bassorilievo dei fedeli che si recano dalla Madonna per ottenere la guarigione.
Per finire, ma tanto altro ci sarebbe da far vedere, il santo protettore di Pizzo, San Giorgio, che trafigge il drago.
Torniamo all'ingresso, davanti al quale si spalanca un bellissimo scorcio di mare
salutiamo la Madonnina che protegge le genti di mare
e percorriamo le antiche e strette vie del centro storico, cogliendo al volo una bella immagine, modo veloce per fare la spesa senza scendere le scale.
Ci sono circa ottanta sorgenti sparse per tutto il territorio, di cui cinquanta a oriente e altre trenta a occidente. Vediamo Fontana Garibaldi, così chiamata dal 1866, già nota come Fontana Vecchia nel XV Sec. Nell'agosto del 1860 nella sue acque ferrigne i Garibaldini
della Brigata Orsini trovarono frescura e ristoro fra una popolazione
accogliente che li circondò di affetto al grido di "Viva l'Italia"!
L’acqua che scorre è del colore del ferro, e anche il suo sapore è ferroso, quindi probabilmente poco gradevole per il palato, ma non per questo perde le sue qualità di potabilità e curative.
La Chiesa di Maria Immacolata, molto ben conservata, fu edificata nel 1630 per volere della congregazione di commercianti e agricoltori locali devoti alla Vergine Maria. Restaurata nel 2004 presenta una gradevole facciata dalle tinte chiarissime, con un portale
sormontato da un arco a tutto sesto sottolineato dai semiarchi che
incorniciano i finestroni laterali del livello superiore: quest’ultimo è
dominato dalla statua dell’Immacolata posta al centro in grande risalto in una nicchia ad arco a sesto acuto. L’edificio è sormontato da un crocifisso e dalla torre campanaria laterale.
Come riporta l’epigrafe sull’architrave, la Chiesa Madre di Pizzo (o Duomo) è intitolata a San Giorgio Martire e alla Vergine Maria.
Nel bel mezzo del centro storico, la struttura fu costruita nel secondo
Cinquecento per essere adibita al culto nel 1587: è la prima Collegiata della
Diocesi di Mileto in ordine di tempo e per importanza. Più volte
restaurata e ristrutturata, la Chiesa di San Giorgio presenta una ricca facciata barocca scolpita dal Fontana in cui è rappresentato
il Santo a cavallo nell’atto di trafiggere il drago
con la sua lancia: sono riconoscibili anche una figura femminile (una
principessa, secondo la tradizione, ma anche la Madonna in
un’interpretazione più allegorica) e una fortezza sullo sfondo per la quale lo scultore potrebbe essersi ispirato alla torre angioina del Castello Aragonese.
Murat è ricordato con una lapide nel Cimitero del Père Lachaise, a Parigi,
anche se si afferma che non sia effettivamente sepolto lì, ma che il
suo corpo sia andato perso dopo la sua esecuzione. In realtà, secondo la
tesi più affermata, venne sepolto nella Chiesa di San Giorgio, in una
fossa comune. Una lapide sul pavimento al centro della navata ne ricorda la sepoltura in questo tempio.
Ce ne andiamo ora a gustare un ottimo tartufo, alla gelateria Belvedere,
in Piazza della Repubblica, prima di visitare il castello. Pizzo è
infatti rinomata per la produzione del gelato noto come "tartufo" e per
la qualità gelatiera in generale, tant'è che è definita "città del gelato".
Il tartufo di Pizzo
è un gelato alla nocciola che viene modellato, rigorosamente nel palmo
della mano, a forma di semisfera con un cuore di cioccolato fondente
fuso e ricoperto da un spolverata di cacao amaro in polvere e zucchero. È
stato inventato negli anni '50 dello scorso secolo quasi certamente
ispirandosi all'omonimo cioccolatino torinese della Talmone, prodotto
con gli stessi ingredienti e all'epoca popolarissimo. La produzione è
tradizionalmente artigianale ed è il primo gelato in Europa ad aver
ottenuto il marchio IGP.
Dalla gelateria, posta in piazza, ci dirigiamo al belvedere da dove ho colto questa immagine, una struttura in metallo strana che rappresenta un uomo seduto, di cui però non ho trovato spiegazioni in rete. La lascio come ricordo per chi mi legge.
Il Castello venne fatto costruire da Ferdinando I d’Aragona nel XV sec. ma già uno dei 2 torrioni
era presente fin dal XIII sec. Fu costruito in circa 5 anni
(1487-1492). Il castello si presenta con un corpo quadrangolare e
l’entrata si trova sul lato verso il mare. In origine c’era un ponte levatoio in legno che serviva appunto all’accesso al castello che era difeso da un fossato oggi interrato.
Non fu mai una residenza signorile, ma sempre fortezza militare e prigione. Aveva il ruolo di avamposto a difesa della costa tirrenica e faceva parte di un sistema di avvistamento con altri castelli, come quelli di Corigliano e di Belvedere Marittimo, nell’odierna provincia di Cosenza. Sul portale c'è una lapide a memoria di Gioacchino Murat, che qui venne fucilato il 13 ottobre 1815.
La proprietà del castello passò dagli Aragona a Don Diego de Mendoza nel 1504, quindi al casato dei Silva, al quale apparteneva il Duca dell’Infantado, fino al 1806, quando un decreto del re, Giuseppe Bonaparte, abolì la feudalità
con tutti i privilegi ad essa collegati. Incamerato dal governo, nel
1884 fu ceduto al Comune di Pizzo. Con Decreto del 3 giugno 1892 fu
dichiarato “Monumento Nazionale”.
Nella foto l'arco d'ingresso,
sovrastato dallo stemma marmoreo di Casa Infantado e dalla lapide a
memoria di Murat, posta nel 1900.
Proprio in questo castello, infatti, fu tenuto prigioniero e in seguito condannato a morte Gioacchino Murat, uno tra i personaggi determinanti della storia del sud Italia.
Era un generale francese, nominato Maresciallo dell’Impero da Napoleone e Re di Napoli nel 1808.
Nel 1810 partì da Napoli e giunse a Scilla per poi tentare la conquista della Sicilia, ma non riuscì nell’impresa. Dopo la disfatta di Waterloo, il declino di Napoleone travolse anche lui, che nel 1815 tentò di riconquistare il Regno con uno sbarco sulle coste della Calabria, ma riuscì soltanto ad approdare a Pizzo per mezzo di una scialuppa della nave che, a seguito di una tempesta incontrata al largo di Salerno, lo portò sulla Costa degli Dei.
Qui fu intercettato dalla Gendarmeria Borbonica che lo arrestò e lo rinchiuse presso il Castello del Paese. Dopo 5 giorni di prigionia, si riunì in un processo farsa una Commissione Militare che emise la sentenza di morte per atti rivoluzionari, sulla base del Codice Penale.
In seguito alla condanna, Murat scrisse la celebre lettera alla moglie Carolina Bonaparte e ai loro quattro figli, si confessò e il 13 ottobre 1815, alle ore 17:00 in punto, venne fucilato. Si narra che le sue ultime parole furono: “Risparmiate il mio volto, mirate al cuore, fuoco!”
Nel 1810 partì da Napoli e giunse a Scilla per poi tentare la conquista della Sicilia, ma non riuscì nell’impresa. Dopo la disfatta di Waterloo, il declino di Napoleone travolse anche lui, che nel 1815 tentò di riconquistare il Regno con uno sbarco sulle coste della Calabria, ma riuscì soltanto ad approdare a Pizzo per mezzo di una scialuppa della nave che, a seguito di una tempesta incontrata al largo di Salerno, lo portò sulla Costa degli Dei.
Qui fu intercettato dalla Gendarmeria Borbonica che lo arrestò e lo rinchiuse presso il Castello del Paese. Dopo 5 giorni di prigionia, si riunì in un processo farsa una Commissione Militare che emise la sentenza di morte per atti rivoluzionari, sulla base del Codice Penale.
In seguito alla condanna, Murat scrisse la celebre lettera alla moglie Carolina Bonaparte e ai loro quattro figli, si confessò e il 13 ottobre 1815, alle ore 17:00 in punto, venne fucilato. Si narra che le sue ultime parole furono: “Risparmiate il mio volto, mirate al cuore, fuoco!”
Fu poi sepolto in una fossa comune nella chiesa di San Giorgio. Oggi il castello viene denominato Castello Murat in sua memoria.
Per chi lo vuole leggere, qui un documento molto lungo (in pdf) ma molto interessante su Murat.
Per chi lo vuole leggere, qui un documento molto lungo (in pdf) ma molto interessante su Murat.
Si entra nel castello attraversando un ponte in muratura oltre il quale si trova un androne. L’accesso alle camere superiori avviene attraverso una scala e dal ballatoio si passa nei vari ambienti. All’interno di ogni ambiente sono stati sistemati dei manichini a grandezza naturale in abiti d’epoca.
Si arriva alla prigione
di Murat, un luogo angusto con una finestra bassa e molto piccola dalla
quale si intravede il mare. Qui ci sono ancora alcune
suppellettili, la scrivania, la tavola dove stendersi ma anche le lettere che scrisse, l’ultima delle quali con l’addio alla moglie e ai figli.
Alle tre del pomeriggio gli furono serviti brodo, piccione disossato e pezzi di pane. Murat, vedendo quel pasto frugale, anche se la sentenza della Commissione non era ancora stata emessa, commentò: Anche se non fossi certo di dover morire, eccone ora la prova.
Testo originale dell'ultima lettera scritta da Murat alla moglie.
Mia cara Carolina, la mia ultima ora è
arrivata: tra pochi istanti io avrò cessato di vivere e tu non avrai più
uno sposo. Non dimenticatemi mai, io muoio innocente; la mia vita non
fu macchiata da alcuna ingiustiza. Addio mio Achille, addio mia Letizia,
addio mio Luciano, addio mia Luisa. Mostratevi al mondo degni di me. Io
vi lascio senza un Regno e senza beni, tra numerosi nemici. Sappiate
che la mia più grande pena negli ultimi momenti della mia vita è di
morire lontano dai miei figli. Ricevete la mia paterna benedizione e
miei abbracci e le mie lacrime. Abbiate sempre presente nella memoria il
vostro infelice padre. Castello del Pizzo, il 13 ottobre 1815.
Nel castello di Pizzo ritrovato il tesoro di Gioacchino Murat.
PIZZO CALABRO - Una scoperta eccezionale
che ha lasciato senza parole la cittadinanza di Pizzo: ritrovato il
tesoro di Gioacchino Murat. Come quasi tutti i grandi rinvenimenti
storici, anche questo è frutto della casualità. Durante i lavori di
messa in sicurezza del Castello di Pizzo, è stata trovata una botola
segreta proprio nella cella dove è stato rinchiuso Murat, Re di Napoli e
cognato di Napoleone Bonaparte. L'ingegnere Tommaso Fulcanelli, dietro
autorizzazione della Sovraintendenza, dopo averla aperta si è calato in
un lungo corridoio scavato nella pietra di tufo che lo ha portato in una
stanza segreta. Qui, tra muffe e umidità, l'eccezionale ritrovamento:
un'anfora in ferro (come quelle che si usavano per il trasporto di
spezie nei primi anni del XIX sec.) piena di monete d'oro e un baule con
decine di fogli arrotolati tutti che riportavano la firma autografa
dello sfortunato statista.
Le monete in tutto sono 327, tutte coniate tra il 1803 e il 1813, sono in condizioni quasi perfette.
I fogli avranno bisogno di un delicato restauro. Secondo le prime indiscrezioni, i manoscritti riportano in maniera dettagliata gli accadimenti di quei cinque giorni fatali tra l'8 e il 13 ottobre 1815 data della fucilazione di Murat. Grande soddisfazione tra le autorità calabresi, che si stanno recando al Museo della Pesca di Pizzo dove è stato temporaneamente collocato l'inestimabile tesoro, protetto da un cordone di agenti.
I fogli avranno bisogno di un delicato restauro. Secondo le prime indiscrezioni, i manoscritti riportano in maniera dettagliata gli accadimenti di quei cinque giorni fatali tra l'8 e il 13 ottobre 1815 data della fucilazione di Murat. Grande soddisfazione tra le autorità calabresi, che si stanno recando al Museo della Pesca di Pizzo dove è stato temporaneamente collocato l'inestimabile tesoro, protetto da un cordone di agenti.
FONTE: DANGEROUS NEWS. CALABRIA, CRONACA
09/03/2014
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La Costa degli Dei è il nome con cui è stato battezzato un tratto di costa del Tirreno meridionale, ricadente interamente nella provincia di Vibo Valentia. È la parte di costa che delimita il cosiddetto corno
di Calabria, un tratto di costa che conta circa 55 km di litorale che
si presenta con una morfologia variegata. Partendo da nord i comuni che
ricadono su questo tratto di costa sono: Pizzo Calabro, Vibo Valentia,
Briatico, Zambrone, Parghelia, Tropea, Ricadi, Joppolo e Nicotera.
A lunghe spiagge bianche, si succedono rocce frastagliate creando piccole calette raggiungibili solo a piedi o in barca. Viene anche chiamata La Costa Bella per i suggestivi panorami con le Isole Eolie che distano solo 32 miglia nautiche.
Vibo Valentia, già Monteleone di Calabria fino al 1928 e Monteleone precedentemente all'unificazione d'Italia, è il comune più popoloso della costa degli Dei e ha una storia lunga oltre 8.000 anni. Al Neolitico
risalgono tracce di un'intensa frequentazione dell'attuale Vibo
Valentia, sono state ritrovate anche tracce di occupazione nell'Età del bronzo e del ferro. A partire dalla seconda metà del VII secolo a.C. fu colonia greca con il nome di Hipponion, fondata da Locri Epizefiri. Hipponion, come gli altri centri italioti e Bruzi, passerà sotto il controllo dei Romani e verrà insediato un presidio romano; da questi fu chiamata Valentia, con diritto di zecca e varie autonomie. Successivamente, dall'89 a.C. quando divenne municipio, Vibo Valentia fu il nome utilizzato per indicare la città.
Dopo la fine dell'impero romano i bizantini provvidero a fortificarla, ma i saraceni l'attaccarono e saccheggiarono più volte. Federico II di Svevia passando dalla città, rimasto impressionato per la bellezza e il potenziale strategico del luogo, diede l'incarico di ricostruirla e ripopolarla e d'allora cambiò il nome in Monteleone di Calabria. In questo periodo venne realizzata la prima fase del castello che per errore veniva attribuita al periodo Normanno. Sotto gli Angioini
la città acquisì ancora più prestigio e prosperità, venne ulteriormente
rafforzato e ingrandito il castello e la cinta muraria medievale. In
seguito fra il periodo Angioino e Aragonese, divenne Feudo dei Caracciolo e poi comune demaniale.
Avvenimento più importante degli ultimi anni, nel 1992, è stata la proclamazione dell'omonima provincia, che in precedenza era compresa nella provincia di Catanzaro.
La Calabria è ricca di miti e leggende, che spesso si intersecano con la realtà...
La mitologia racconta che là, dove l'aspro sperone del monte Ipponio si protende sul mare di Lampetia, la giovane dea Persefone-Kore, figlia di Zeus e di Demetra, fu rapita un giorno da Plutone
che la costrinse a seguirlo nell'Ade su un carro trainato da cavalli.
Il padre Zeus dispose che trascorresse i mesi dell'inverno nell'Ade e i
mesi estivi sulla terra. Demetra allora accoglieva con gioia il
periodico ritorno di Persefone sulla Terra, facendo rifiorire la natura in primavera e in estate. La rappresentazione del suo ritorno in terra era situata presso i prati di Vibo Valentia, celebri per i fiori dai colori sgargianti e per la loro bellezza; ciò è testimoniato anche dalle numerosissime statuette greche ritrovate nel territorio Vibonese.
La lamina orfica ritrovata in una tomba dell’antica Hipponion (Vibo Valentia) e risalente al IV secolo a.C. rappresenta un’importante testimonanza del culto delle religioni misteriche in Calabria (forse già in uso prima dell’arrivo dei greci). Si tratta di un reperto unico
per lo stato di conservazione in cui ci è pervenuto. Altri esemplari
sono stati ritrovati in Calabria (frammenti), in Tessaglia e a Creta.
Il testo della lamina.
Di Mnemosine è questo sepolcro. Quando ti toccherà di morire
andrai alle case ben costrutte di Ade: c’è alla destra un fonte,
e accanto a essa un bianco cipresso diritto;
là scendendo si raffreddano le anime dei morti.
A questa fonte non andare neppure troppo vicino;
ma di fronte troverai fredda acqua che scorre
dalla palude di Mnemosine, e sopra stanno i custodi,
che ti chiederanno nel loro denso cuore
cosa vai cercando nelle tenebre di Ade rovinoso.
Di’ loro: sono figlio della Greve e di Cielo stellante,
sono riarso di sete e muoio; ma date, subito,
fedda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine.
E davvero ti mostreranno benevolenza per volere del re di sotto terra;
e davvero ti lasceranno bere dalla palude di Mnemosine;
e infine farai molta strada, per la sacra via che percorrono
gloriosi anche gli altri iniziati e posseduti da Dioniso.
La laminetta, che veniva deposta piegata in 4 parti, sul petto del defunto, in questo caso una fanciulla di nobile famiglia, aveva lo scopo di accompagnare la sua anima e guidarla nel regno di Ade.
Briatico è adagiato sulle scogliere della costa degli Dei e si affaccia sul golfo di Sant'Eufemia. La sua fondazione è per tradizione fatta risalire ai Locresi, al tempo del loro passaggio a Hipponion. Durante il periodo feudale la cittadina passò sotto vari domini. Il terremoto
del 27 marzo 1638 provocò ingenti danni alle abitazioni e lo stesso
accadde col terremoto del 5 e 6 novembre 1659. Ma quello del 5 febbraio
1783 non lasciò scampo: la città fu rasa al suolo, le case completamente distrutte, e vi furono innumerevoli vittime. Briatico fu ricostruita più grande e più forte di prima.
Di Briatico Vecchio, che sorgeva su un colle alla destra della fiumara Murria, rimangono i ruderi del Castello medievale fatto edificare da Ferdinando Bisbal e dell'antico centro abitato, che all'epoca contava 12 chiese, 3 conventi e aveva un'enorme importanza storico-culturale. Sulla spiaggia restano solo due delle 5 Torri del sistema difensivo:
la Rocchetta, suggestiva torre quadrangolare che sorge sulla riva del mare. Fa parte del sistema di difesa costiero, baluardo contro le incursioni saracene. Costruita in origine dai greci, ricostruita dai romani, venne rimaneggiata in epoca medievale.
Particolare è la forma rettangolare, che si contraddistingue dalle altre torri poste lungo il litorale che hanno tutte forme circolari o quadrate.
A circa 100 metri dalla costa sorge la torre di S.Irene, costruita dal governo spagnolo nel XVI secolo. Sant’Irene è il nome di un promontorio, di uno scoglio e di una località nei pressi di Briatico, (nella foto la baia) ma non di una santa venerata in questi posti. S.Irene poteva essere Sirene o forse Isola delle Sirene o lo Scoglio delle Sirene.
Sullo scoglio sono ancora visibili delle cavità scavate nel tufo; secondo alcuni pescatori del luogo l’isola era la “prigione delle sirene e tutti i cunicoli erano forniti di sbarre di ferro e piombo per non lasciare fuggire questi strani esseri marini”.
In realtà sappiamo che lo scoglio era un antico vivarium romano, un’antica peschiera. I pescatori catturavano i tonni
e li facevano passare attraverso i cunicoli per farli arrivare alle
vasche, dove rimanevano prima di essere uccisi, poco per volta, a
seconda del bisogno. I cunicoli e le vasche furono scavati, millenni orsono, direttamente nel tufo dell’isolotto.
Lo scoglio è chiamato anche “scoglio della Galea” o “scoglio di Ulisse”,
è uno scoglio dalle tante leggende. E’ possibile che il nome fosse
quello di “isola delle sirene” dalla leggenda di Ulisse. Il nome Galea, invece, non proviene come comunemente si dice dal fatto che in tempi lontani ivi fu costruita una prigione ma dal fatto che, nel 1571, un’imbarcazione
della flotta cristiana, che al comando di Marcantonio Colonna si
apprestava ad affrontare i Turchi in quella che fu poi chiamata la
Battaglia di Lepanto, spinta da un fortunale, s’incagliò tra la costa di S. Irene e l’isolotto prospiciente. L’imbarcazione naufragata era una galera o galea, detta così perché ai suoi remi erano costretti dei galeotti.
Zambrone sorge su un altopiano a 222 m di altitudine dal mare che dista circa 2 km; è caratterizzato dal litorale che passa repentinamente dalle lunghe e basse spiagge alle scogliere granitiche come punta Capo Cozzo (foto). Secondo alcune notizie storiche il paese venne creato attorno al 1300 quando le continue incursioni dei pirati saraceni portarono gli abitanti di San Giovannello a spostarsi nell'attuale posizione.
Gli ultimi ritrovamenti archeologici presso il sito di Zambrone scalo, però, hanno portato alla luce numerosi reperti risalenti a circa 800.000 anni fa di manufatti chopper,
un primitivo strumento ottenuto mediante scheggiatura della pietra per
renderlo tagliente. Sempre a Zambrone sono stati rinvenuti altri reperti
presso le località di Madama e Priscopio, alture di originine rocciosa.
Non bisogna dimenticare che l'altopiano del Poro è uno dei siti più ricchi d'Italia per ritrovamenti risalenti alla preistoria.
La civiltà micenea caratterizza la storia dell’Ellade del II millennio a.C.
Dai libri di storia apprendiamo che era un popolo di stirpe indoeuropea che occupò la Grecia continentale scendendo dal Nord e ponendo la sua base in Argolide con centro di potere Micene.
Il popolo miceneo ci è noto soprattutto grazie ad Omero: il re Agamennone, comandante della spedizione punitiva contro la città di Troia, era il re di Micene e Argo.
In base alle scoperte effettuate il popolo miceneo corrisponderebbe agli Achei descritti da Omero. Essi arrivarono ad espandersi fino a Rodi e Cipro e il popolo Ittita già li rispettava e li temeva.
Intorno al XV-XIV secolo a.C la civiltà
micenea e quella cretese ovvero minoica si erano completamente fuse
dando origine alla prospera civiltà egea.
I micenei furono abili lavoratori dei metalli. Celebri sono le armi micenee e l’arte orafa (Maschera di Agamennone, coppe da vino riccamente decorate e altro).
Anche la ceramica micenea con influenze minoiche raggiunse alti livelli. Il motivo caratterizzante è la decorazione dei vasi con elementi della flora e della fauna marina (delfini, polipi).
Tantissime sono le testimonianze storiche di eroi Achei (micenei) che terminata la guerra di Troia giunsero in Calabria
e fondarono diverse colonie (Chone e Pandosia per esempio furono
fondate da Filottete, Laos e altre). Queste popolazioni avrebbero anticipato di 4 secoli la venuta dei greci ovvero la colonizzazione dell’VIII secolo a.C.
Recentemente un team di archeologi internazionale ha scoperto nei pressi di Zambrone un insediamento di epoca micenea.
Si tratta di una prova indiscutibile della presenza di gente micenea in
Calabria. Oltre a reperti di ceramica molto significativi è stata anche
individuata una fortificazione.
Nella stessa zona è stata
ritrovata una statuetta di produzione cretese realizzata in avorio di elevata qualità, rarissimo
persino a Creta e Micene, raffigurante un uomo in piedi con la
gamba destra leggermente avanzata, con la parte superiore del corpo
inarcata all’indietro, e con i pugni poggiati sui due lati del torace.
La statuetta (molto piccola, sta nel palmo di una mano) ritrovata a punta Zambrone appartiene all’arte minoico-micenea e testimonia quindi un contatto tra i popoli della Calabria e Creta già in epoca antica. Attualmente si trova custodita nel Museo di Reggio Calabria.
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La giornata
continua con la visita di Tropea, ma visto che la pagina comincia a
essere troppo voluminosa ne creo un'altra, dal momento che comunque il
primo ottobre è stata una giornata dedicata al relax in un resort vicino
a Tropea, quindi avrei ben poco da raccontare.
Impressionante e informativo
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