venerdì 30 giugno 2017

Considerazioni personali sulla gita in Calabria

La Calabria sembra essere stata creata da un Dio capriccioso che, dopo aver creato diversi mondi, si è divertito a mescolarli insieme. Guido Piovene
Ho trovato questa frase in rete e la condivido in pieno. La Calabria mi ha stupita e affascinata. Mi aspettavo una terra in gran parte brulla o riarsa e ho trovato invece angoli di paradiso.

Lo stemma della Calabria racchiude in cornice ovale quattro dei simboli che rappresentano la regione: il pino laricio (Pinus nigra laricio), il capitello dorico, la croce bizantina e la croce potenziata. Vediamo in dettaglio questi simboli. 



Il pino laricio è pressoché diffuso su tutto l'altopiano della Sila, in parte nelle Serre Vibonesi e in Aspromonte, nella fascia che va dai 1100 m ai 1700 m d'altitudine. Appartengono a questa sottospecie i "Giganti della Sila" o "Giganti di Fallistro, pini larici ultracentenari di dimensioni maestose, i cui tronchi formano un perfetto colonnato naturale. Tali tronchi possono innalzarsi fino a 45 metri di altezza e avere un diametro alla base di circa due metri.


La Sila custodisce molti altri tesori, di cui ho parlato nella pagina dedicata al parco. Richiamo qui un tesoretto, che abbiamo avuto modo di assaggiare con gran piacere. 




Il capitello dorico è costituito da tre elementi: abaco, con la funzione di offrire una più ampia base d'appoggio alla trabeazione; echino,  la cui funzione è quella di collegare la superficie dell'abaco a quella meno estesa del collarino, che a sua volta è raccordato al fusto. Alla base dell'echino si trovano tre sottili fasce sovrapposte (anuli), con lo scopo di allontanare l'acqua piovana dalla superficie del fusto; infine collarino, sotto gli anuli, che costituisce la parte superiore del fusto.

Il profilo dell'echino fornisce indicazioni sulla datazione: nell'architettura greca di epoca arcaica esso era molto espanso e rigonfio, mentre durante l'epoca classica iniziò a subire un processo di rettificazione e rimpicciolimento, proseguito in età ellenistica e romana, con echini dalla curvatura appena accennata. Il simbolo sullo stemma ricorda la splendida età della Magna Grecia e la sua eredità.

Con la richezza di testimonianze di architettura greco romana (e non solo) della regione abbiamo avuto modo spesso di apprezzare questi capitelli.


In architettura l'intersecarsi di navata e transetto conferisce alle chiese una pianta a croce. Si parla di pianta a croce greca per le chiese in cui la navata e il transetto hanno la stessa lunghezza e si intersecano a metà della loro lunghezza, altrimenti si parla di pianta a croce latina. La pianta a croce greca è tipica dell'arte bizantina e il simbolo sullo stemma ricorda il lungo periodo in cui la Calabria ha fatto parte dell'impero bizantino e rappresentato, insieme alla Puglia, un ponte tra Occidente ed Oriente. Il Battistero di Santa Severina è l'unico esempio di Battistero a croce greca in Italia. (ne ho parlato a proposito della giornata del 29 settembre).



La croce potenziata, cioè con tutti i bracci uguali che terminano con una croce in tau, presente sia nello stemma della Calabria Citra (anche Calabria Citeriore) che in quello della Calabria Ultra (anche Calabria Ulteriore) dal tempo dei Normanni ricorda il valore dei dodicimila Crociati calabresi che, sotto la guida di Boemondo Duca di Calabria, combatterono per la liberazione del Santo Sepolcro durante la prima crociata. Il simbolo è anche presente negli stemmi delle province di Catanzaro, Cosenza, Reggio Calabria e Vibo Valentia. Esempio di croce potenziata è la stauroteca che giunse a Cosenza il 30 gennaio del 1222, per la consacrazione della Cattedrale dopo il devastante terremoto nel 1184, dono dell’Imperatore Federico II Hohenstaufen di Svevia alla città.


 

 


La Calabria è ricca di leggende, tradizioni, miti. Tra i tanti...
A lungo considerato luogo inaccessibile e sacro, Capo Vaticano, con il suo promontorio magico, si affaccia sul mar Tirreno nella provincia calabrese di Vibo Valentia. La magia salta agli occhi già dal nome: Vaticano deriverebbe infatti dal latino Vaticinium, che significa oracolo, responso, a rievocare una leggenda che vuole la punta estrema del promontorio abitata dalla profetessa Manto.  A lei si sarebbero rivolti i naviganti prima di avventurarsi tra i vortici di Scilla e Cariddi e lo stesso Ulisse, scampato agli scogli del pericolo, avrebbe chiesto auspici a Manto circa la prosecuzione del suo viaggio.

Capo Vaticano è conosciuto anche come migliore territorio al mondo per la produzione della cipolla rossa, detta anche cipolla di Tropea, dal gusto particolarmente dolce. Grazie alle sostanze contenute nel terreno, "solo quella coltivata a Capo Vaticano risulta dolce" ed è ricercatissima nel mercato nazionale e internazionale.
La sua introduzione in Calabria si fa risalire all'epoca della dominazione dei Fenici, come testimoniano alcuni reperti archeologici rinvenuti nella zona di Vibo Marina e Triniti. La coltivazione attuata in maniera diffusa, invece, risale ai primi dell'Ottocento, allorché nel territorio di Parghelia (Vibo Valentia) venne per la prima volta inserita in rotazione al posto del cotone.

La regione offre scenari fantastici che spaziano da mari cristallini, a pianure verdissime a borghi arroccati su monti o scogliere. Parlando della Calabria non si può esimersi dal citare i suoi famosissimi agrumi (arance, limoni, mandarini, clementina, bergamotto, chinotto). 

Alcune leggende fanno derivare il bergamotto dalle isole Canarie, dalle quali sarebbe stato importato ad opera di Cristoforo Colombo; altre fonti propendono per Cina, Grecia, o dalla città di Berga in Spagna; mentre si narra la storia del moro di Spagna, che per 18 scudi ne vendette un ramo ai signori Valentino di Reggio, che lo innestarono su un arancio amaro in un loro possedimento nella contrada Santa Caterina (quartiere di Reggio Calabria). L'etimologia più verosimile è Beg-armudi, cioè "pero del signore" in turco, per la sua similarità con la forma della pera bergamotta.

La prima piantagione intensiva di alberi di bergamotto (bergamotteto) fu opera, nel 1750, del proprietario Nicola Parisi lungo la costa reggina, nel fondo di Rada dei Giunchi, situato di fronte l'area dove oggi si trova, nel cuore della città, il Lido comunale Zerbi. Originariamente l'essenza veniva estratta dalla scorza per pressione manuale e fatta assorbire da spugne naturali (procedimento detto "a spugna"), collocate in recipienti appositi (detti concoline).


Nel 1844, si documenta la prima vera industrializzazione del processo di estrazione dell'olio essenziale dalla buccia grazie a una macchina di invenzione del reggino Nicola Barillà, denominata macchina calabrese, che garantiva una resa elevata in tempi brevi, ma anche un'essenza di ottima qualità se paragonata a quella estratta a spugna.
L’olio essenziale di Bergamotto viene prodotto lungo la striscia costiera che si estende tra Villa S. Giovanni e Gioiosa Jonica, tra il mar Jonio e il Tirreno, e comprende numerosi comuni della provincia di Reggio Calabria.






Non ci sono solo sterminate distese di agrumi...

Il giallo intenso della ginestra colora le pendici delle montagne assieme al suo inconfondibile profumo. La ginestra è una delle protagoniste dell'Arte della Tessitura  e a Longobucco, nella Sila Greca, in provincia di Cosenza, primeggia in quanto forma d'artigianato unica nel suo genere. Anche a Chorio di Roghudi, a Roccaforte del Greco e a Gallicianò di Condofuri vengono prodotte ancora coperte di ginestra seguendo le tecniche antichissime della lavorazione.

Anche il meteo ci è stato propizio, regalandoci una settimana di sole caldo ma mitigato da una piacevole brezza. Ci siamo arrampicati su erte e dirupi dietro a guide molto in gamba, tutte donne giovani e innamorate della loro terra, che ci hanno regalato una valanga di informazioni, tra un respiro e l'altro (credo che dalla mole della mia cronaca si sia notato). 

La cucina tipica ci ha spesso soddisfatto con piatti semplici ma molto gustosi, anche se talvolta siamo stati meno fortunati, soprattutto con le cene in albergo.
Per noi inediti ma apprezzatissimi i peperoni cruschi, biglietto da visita del ristorante Barbieri di Altomonte.

La Soppressata di Calabria è un insaccato a denominazione di origine protetta. Si ottiene con carne di maiale tagliata a pezzettoni a cui si unisce pepe nero, finocchio (a grani), sale e peperoncino. Si prepara prendendo le parti migliori della coscia del maiale, tritate e prive di nervi e insaccandole in budello naturale; il tutto viene poi lasciato asciugare all'aria. Dopo circa due settimane si sistema sul pavimento un lenzuolo di lino e vi si adagiano le soppressate, le une vicine alle altre, con l'accortezza di lasciare tra esse uno spazio di circa un centimetro. Le soppressate vengono quindi coperte con un altro lenzuolo di lino, al disopra del quale viene poggiato un tavoliere su cui vanno posti dei pesi in modo da ottenere quella pressatura che conferisce il nome al salume. Dopo circa una settimana viene interrotta la pressatura e gli insaccati vengono messi ad asciugare. Nella fase di asciugatura, della durata di circa due settimane, si usa spesso l'accorgimento di accendere un braciere nelle vicinanze che conferisca al prodotto una leggera affumicatura; nel braciere vengono aggiunte scorze di arance per garantire un'affumicatura aromatica. Quindi si ripete l'operazione della pressatura (la "soppressa"). Nella fase conclusiva le soppressate vengono lasciate a stagionare per un periodo di cinque-sei mesi.
Un tagliere di salumi e formaggi tipici, accompagnati da pane fragrante e magari ancora caldo, sono una tentazione irresistibile.


Ma anche i dolci non sono da trascurare... Assolutamente celestiale il tartufo di Pizzo, di cui ho già parlato; buona ma da mangiare a piccole dosi la Pitta 'mpigliata, dolce tipico originario di San Giovanni in Fiore ma molto diffuso in tutta la provincia di Cosenza. Gli ingredienti principali sono farina, olio, zucchero, frutta secca, liquore aromatico, miele e spezie. 


La Calabria, un tempo chiamata "Enotria" (terra del vino), è particolarmente ricca di vini dal sapore tipicamente meridionale; alcuni vigneti risalgono a quando i coloni greci portarono i vitigni dalla madrepatria, cominciando a produrre il vino che ancora oggi viene da questa terra. Attualmente la regione vanta la produzione di 12 vini a marchio DOC: per i nostri gusti sono però vini troppo pastosi.

La presenza dell’ulivo è documentata almeno sin dal tempo dei Greci (VIII/VII sec. a.C.), quando la pianta arrivò nell' Italia meridionale importata dall'Asia Minore, ma si deve ai Romani l’enorme sviluppo e la diffusione di questa coltura antichissima. Alberi sempreverdi e molto longevi, col loro verde argento straordinario, gli olivi sono oggi parte inconfondibile del paesaggio agrario calabro. Gli impianti arborei, veri e propri monumenti della natura, si adattano a terreni anche impervi. La raccolta delle olive, che inizia ad ottobre-novembre, prima della semina del grano, può avvenire con mezzi meccanici, per brucatura o per caduta spontanea sulle reti. In Calabria, sono presenti 3 oli DOP: “Bruzio”, “Lametia”, “Alto Crotonese” con caratteristiche diverse e regolamentate da specifici disciplinari. Le aree maggiormente adatte alla coltivazione dell’olivo sono quelle del cosentino, del lametino e del reggino (in particolare la Piana di Gioia Tauro e la Locride). 

La Calabria è terra di emozioni forti e intense. I suoi sapori lo sono altrettanto: un esempio per tutti è rappresentato dal famoso peperoncino calabrese. È facile trovare questo ingrediente in molti piatti caratteristici calabresi: dalle bruschette con la n’duja o con la sardella - detta il “caviale dei poveri” - agli insaccati di carne suina, dai condimenti per la pasta alle pietanze di pesce.

Il peperoncino piccante era usato come alimento fin da tempi antichissimi. Dalla testimonianza di reperti archeologici sappiamo che già nel 5.500 a.C. era conosciuto in Messico, presente in quelle zone come pianta coltivata, ed era la sola spezia usata dagli abitanti del Cile e del Messico. In Europa il peperoncino è arrivato con Cristoforo Colombo che l'ha portato dalle Americhe col suo secondo viaggio, nel 1493.
 
Introdotto quindi in Europa dagli Spagnoli, ebbe un immediato successo, ma i guadagni che la Spagna si aspettava dal commercio di tale frutto (come quello di altre spezie orientali) furono deludenti, poiché il peperoncino si acclimatò benissimo nel vecchio continente, diffondendosi in tutte le regioni meridionali, in Africa ed in Asia, e venne così adottato anche da quella parte della popolazione che non poteva permettersi l'acquisto di cannella, noce moscata e altre spezie.
Il frutto venne chiamato così a causa della somiglianza nel gusto (sebbene non nell'aspetto), con il pepe. Il nome con il quale era chiamato in tutto il nuovo mondo era "chili" e così è rimasto.

Non c'è da meravigliarsi che il fico d'India sia diventato uno dei simboli dell'area mediterranea. E' da più di un millennio, infatti, che la sua forma inconfondibile adorna questa zona sviluppandosi indisturbata sotto il sole più caldo: ha trovato nel Mediterraneo un ambiente ideale che le ha premesso di proliferare e di crescere rigogliosa sia spontaneamente che coltivata. Nel corso dei secoli il suo utilizzo si è fatto sempre più massiccio: è stata persino impiegata per delimitare i confini di proprietà terriera. In Calabria, poi, questo frutto è diventato una vera e propria istituzione. Introdotto sul territorio, con ogni probabilità, dai Saraceni, il fico d'India ha trovato nel microclima locale l'ambiente ideale per crescere indisturbato e proliferare specialmente lungo le coste, diventando una presenza costante oltre che un prodotto estremamente apprezzato non soltanto in campo alimentare ma anche medico, grazie alle sue notevoli proprietà benefiche.

Ho preso spunti dal portale ufficiale della Calabria, che consiglio di andare a vedere: è veramente completo e interessante.


U surici dici a nuci :” Dammi tempu ca’ ti perciu.”
Il topo ha bisogno di tempo, ma alla fine riesce a rompere la noce.
E’ il motto di chi non molla mai e alla fine arriva alla meta.
Ci sono arrivata anch'io. Alla prossima!

 

Quando fu il giorno della Calabria


QUANDO FU IL GIORNO DELLA CALABRIA
di LEONIDA REPACI

Quando fu il giorno della Calabria Dio si trovò in pugno 15000 km. quadrati di argilla verde con riflessi viola. Pensò che con quella creta si potesse modellare un paese di due milioni di abitanti al massimo. Era teso in un maschio vigore creativo il Signore, e promise a se stesso di fare un capolavoro. Si mise all’opera, e la Calabria uscì dalle sue mani più bella della California e delle Hawaii, più bella della Costa Azzurra e degli arcipelaghi giapponesi. 

Diede alla Sila il pino, all’Aspromonte l’ulivo, a Reggio il bergamotto, allo Stretto il pescespada, a Scilla le sirene, a Chianalea le palafitte, a Bagnara i pergolati, a Palmi il fico, alla Pietrosa la rondine marina, a Gioia l’olio, a Cirò il vino, a Rosarno l’arancio, a Nicotera il fico d’India, a Pizzo il tonno, a Vibo il fiore, a Tiriolo le belle donne, al Mesima la quercia, al Busento la tomba del re barbaro, all’Amendolea le cicale, al Crati l’acqua lunga, allo scoglio il lichene, alla roccia l’oleastro, alle montagne il canto del pastore errante da uno stazzo all’altro, al greppo la ginestra, alle piane la vigna, alle spiagge la solitudine, all’onda il riflesso del sole. 

Diede a Cosenza l’Accademia, a Tropea il vescovo, a San Giovanni in Fiore il telaio a mano, a Catanzaro il damasco, ad Antonimina il fango medicante, ad Agnana la lignite, a Bivongi le acque sante, a Pazzano la pirite, a Galatro il solfato, a Villa San Giovanni la seta greggia, a Belmonte il marmo verde. 

Assegnò Pitagora a Crotone, Orfeo pure a Crotone, Democede pure a Crotone, Almeone pure a Crotone, Aristeo pure a Crotone, Filolao pure a Crotone, Zaleuco a Locri, Ibico a Reggio, Clearco pure a Reggio, Cassiodoro a Squillace, San Nilo a Rossano, Gioacchino da Fiore a Celico, Fra’ Barlaam a Seminara, San Francesco a Paola, Telesio a Cosenza, il Parrasio pure a Cosenza, il Gravina a Roggiano, Campanella a Stilo, Mattia Preti a Taverna, Galluppi a Tropea, Gemelli-Careri a Taurianova, Guerrisi a Cittanova, Manfroce a Palmi, Cilèa pure a Palmi, Alvaro a San Luca, Calogero a Melicuccà, Rito a Dinami. Donò a Stilo la Cattolica, a Rossano il Patirion, ancora a Rossano l’Evangeliario Purpureo, a San Marco Argentano la Torre Normanna, a Locri i Pinakes, ancora a Locri il Santuario di Persefone, a Santa Severina il Battistero a Rotonda, a Squillace il Tempio della Roccelletta, a Cosenza la Cattedrale, a Gerace pure la Cattedrale, a Crotone il Tempio di Hera Lacinia, a Mileto la zecca, pure a Mileto la Basilica della Trinità, a Santa Eufemia Lametia l’Abbaziale, a Tropea il Duomo, a San Giovanni in Fiore la Badia Florense, a Vibo la Chiesa di San Michele, a Nicotera il Castello, a Reggio il Tempio di Artemide Facellide, a Spezzano Albanese la necropoli della prima età del ferro. 

Poi distribuì i mesi e le stagioni alla Calabria. Per l’inverno concesse il sole, per la primavera il sole, per l’estate il sole, per l’autunno il sole. 
A gennaio diede la castagna, a febbraio la pignolata, a marzo la ricotta, ad aprile la focaccia con l’uovo, a maggio il pescespada, a giugno la ciliegia, a luglio il fico melanzano, ad agosto lo zibibbo, a settembre il fico d’India, a ottobre la mostarda, a novembre la noce, a dicembre l’arancia. 

Volle che le madri fossero tenere, le mogli coraggiose, le figlie contegnose, i figli immaginosi, gli uomini autorevoli, i vecchi rispettati, i mendicanti protetti, gl’infelici aiutati, le persone fiere leali socievoli e ospitali, le bestie amate. 

Volle il mare sempre viola, la rosa sbocciante a dicembre, il cielo terso, le campagne fertili, le messi pingui, l’acqua abbondante, il clima mite, il profumo delle erbe inebriante. 

Operate tutte queste cose nel presente e nel futuro il Signore fu preso da una dolce sonnolenza, in cui entrava il compiacimento del creatore verso il capolavoro raggiunto. 

Del breve sonno divino approfittò il diavolo per assegnare alla Calabria le calamità: le dominazioni, il terremoto, la malaria, il latifondo, le fiumare, le alluvioni, la peronospora, la siccità, la mosca olearia, l’analfabetismo, il punto d’onore, la gelosia, l’Onorata Società, la vendetta, l’omertà, la violenza, la falsa testimonianza, la miseria, l’emigrazione. 

Dopo le calamità, le necessità: la casa, la scuola, la strada, l’acqua, la luce, l’ospedale, il cimitero. Ad esse aggiunse il bisogno della giustizia, il bisogno della libertà, il bisogno della grandezza, il bisogno del nuovo, il bisogno del meglio. E, a questo punto, il diavolo si ritenne soddisfatto del suo lavoro, toccò a lui prender sonno mentre si svegliava il Signore. 

Quando, aperti gli occhi, potè abbracciare in tutta la sua vastità la rovina recata alla creatura prediletta, Dio scaraventò con un gesto di collera il Maligno nei profondi abissi del cielo. Poi, lentamente rasserenandosi, disse: - Questi mali e questi bisogni sono ormai scatenati e debbono seguire la loro parabola. Ma essi non impediranno alla Calabria di essere come io l’ho voluta. 
La sua felicità sarà raggiunta con più sudore, ecco tutto.

Gita in Calabria - Settima parte - Gerace e Pentedattilo

3 ottobre: Gerace e Pentedattilo.

4 ottobre: mattinata libera e poi rientro a casa.

Durante il trasferimento in pulmann verso Gerace la guida ci parla delle principali località che incontriamo.

Capo dell'Armi (o Capo d'Armi) è un promontorio sito a Lazzàro, frazione di Motta San Giovanni, in provincia di Reggio Calabria. Costituisce il limite sud-orientale dello Stretto di Messina. Una rupe rocciosa che si eleva sul mar Jonio caratterizza il territorio, la cui aspra morfologia è in netto contrasto con quella più dolce del territorio adiacente. La rupe si erge ripida dalle acque del mare fino a superare i 134 m s.l.m. con una parete a strapiombo, la cui unica soluzione di continuità è costituita dalla Strada statale 106 Jonica, scavata proprio all'interno della roccia. Caratteristica peculiare del promontorio roccioso sono le sue cave di pietra reggina (nota anche come pietra di Lazzàro). Il promontorio è archeologicamente rilevante grazie al rinvenimento di numerose tracce della presenza dei primi cristiani. Nei pressi di Capo dell'Armi vennero anche alla luce i resti di una villa romana appartenuta probabilmente al patrizio Publio Valerio e menzionata anche da Cicerone. Fu ritrovata anche una stele con inscrizioni latine di epoca imperiale.

La Pietra Reggina, Pietra di Lazzàro, è una roccia sedimentaria calcarea, molto utilizzata in edilizia, in particolar modo a Reggio Calabria, dove viene usata per gran parte dell'arredo urbano fin dal I millennio a.C.


Melito di Porto Salvo è il comune più a sud della Calabria e dell'Italia continentale, escluse le isole. Secondo gli storici locali la località era sicuramente abitata in epoca tardo-romana, anche se la conferma di tale assunto è data solamente dal ritrovamento nella parte più antica (presso la collinetta Calvario) di una necropoli del V-VI secolo d.C.
Secondo la storia popolare, nel 1600 un quadro con l'effigie della Vergine Maria è stato trovato sulla spiaggia, giunto dal mare e ritrovato da marinai di quel tempo. Il quadro fu tenuto nei pressi del ritrovamento, in una edicola posta dove oggi sorge una nicchia, e poi fu portato nella Chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Pentedattilo (foto) durante i lavori di costruzione del Santuario dedicato alla Madonna; per un antico voto del marchese Domenico Alberti fu deciso che il quadro della Madonna ritorni a Pentedattilo ogni 25 marzo di ogni anno per poi scendere l'ultimo Sabato del mese di Aprile. Con l'eversione della feudalità le terre di Melito e Pentedattilo furono acquistate dai Ramirez, famiglia di origine spagnola che intensificò la produzione agricola introducendo agrumeti e vigneti, dunque colture più pregiate come quella del bergamotto.
Nella seconda metà del XIX secolo fu ultimato il trasferimento di tutte le istituzioni civili e religiose da Pentedattilo a Melito.

Sulla spiaggia melitese di Rumbolo il 19 agosto 1860 avvenne lo sbarco dei Mille di Giuseppe Garibaldi, che dopo aver occupato la Sicilia puntava alla conquista delle terre del Regno borbonico "al di qua del Faro". Nella foto, Casina Ramirez, dove Garibaldi soggiornò subito dopo lo sbarco;  in alto a destra il colpo di cannone della nave borbonica Fulminante.
 
Siamo nella Bovesìa, nota anche come area grecofona: è un'area geografica della provincia di Reggio Calabria, ellenofona, localizzata attorno ai monti di Bova. La zona è culla secolare della minoranza linguistica ellenofona di Calabria. Il versante Jonico meridionale dell'Aspromonte custodisce infatti immutate le tracce della sua antica natura di crocevia sul bacino del Mediterraneo. Quest'area ha assunto per molti secoli il ruolo di vera e propria isola e roccaforte culturale per una serie di motivi come la precarietà storica dei collegamenti ed un entroterra particolarmente impervio. L'isola ellenofona si estende oggi principalmente lungo la vallata della grande fiumara dell'Amendolea, in provincia di Reggio. I paesi sorgono a circa 15 km dalla costa, generalmente tutti su monti un tempo di difficile accesso e solcati da burroni, quindi dominati dal versante sud dell'Aspromonte. (Bova e Stilo fanno parte de I Borghi più belli d'Italia).


La Bovesìa, come tutta la provincia di Reggio Calabria, si caratterizza anche per il microclima particolarmente dolce, unico al mondo che consente la coltura del bergamotto. Lungo i letti delle fiumare e sulle colline, tra le altre coltivazioni si stagliano i campi profumati di questo agrume, soprannominato l'Oro Verde, dal quale si estrae l'olio essenziale che è esportato in tutto il mondo per le sue proprietà di donare una nota estremamente fresca alle composizioni di profumeria.

Brancaleone era chiamato in passato Sperlonga o Sperlinga, denominazione che fu poi sostituita con Mottaleonis, composto da motta (rialzo) e leone, probabilmente con senso metaforico.
E' stata definita "città delle tartarughe di mare" perché sulle sue spiagge, così come su quelle dei comuni vicini, depone le uova la Caretta caretta, facendo di questo tratto di costa l'area più importante di deposizione in tutta l'Italia.

Gerace, che conserva ancora oggi un'impostazione e un fascino medievale, si trova all'interno del Parco nazionale dell'Aspromonte e fa parte de I Borghi più belli d'Italia. Il centro urbano, in particolare il borgo antico, è ricco di chiese, palazzi d'epoca e vani, un tempo abitazioni o botteghe, scavati direttamente nella roccia.

La storia di Gerace affonda le sue radici nella presenza di antichi stanziamenti preistorici e protostorici dei quali rimangono diverse testimonianze. Presso Contrada Stefanelli è stata ritrovata una Necropoli di età preellenica. Conosciuta dai greci e dai romani, con i bizantini e i normanni assume un ruolo importantissimo nell’economia del controllo del territorio per la sua eccezionale posizione strategica. La storia di Gerace è però strettamente collegata a quella di Locri Epizephiri. Il nucleo abitativo, infatti, si sviluppa solo in seguito all'abbandono della città di Locri, avvenuto a partire dal VII secolo d.C., a causa del sempre maggiore pericolo piratesco e la sempre crescente insalubrità delle coste.

Dopo un periodo di subordinazione a Locri Epizefiri e ai Romani, cominciò a ripopolarsi con l’arrivo dei Bizantini e il trasferimento dei vescovi dalla ormai abbandonata Locri. Più volte assalita dai saraceni non fu mai saccheggiata, pagando un forte tributo per evitare l'invasione.

Nel 2015 conquista il 7º posto tra i 20 borghi più belli d'Italia. Dalla sua posizione arroccata, Gerace gode di un'ampia e panoramica visuale su gran parte del territorio della Locride.

Il nome Gerace deriverebbe secondo alcuni studiosi da una corruzione del greco "aghia kiriaka" (Santa Ciriaca) mentre per altri dal termine "Ierax" che vuol dire sparviero. Narra infatti un'antica leggenda che nel 915 uno sparviero guidò sul pianoro i superstiti dell'eccidio avvenuto a Locri in seguito ad una tremenda incursione dei Saraceni. Lo stemma comunale, a testimonianza di ciò, reca ancora oggi come simbolo uno sparviero. 

Il castello fu edificato probabilmente durante il VII secolo d.C.; la sua esistenza è testimoniata nel X secolo d.C. quando fu devastato insiema alla città dai bizantini. Con la venuta dei normanni, intorno al 1050, fu ristrutturato e fortificato. Nei secoli successivi subì le devastazioni di alcuni catastrofici terremoti. Di esso rimangono una grande torre e poche mura, in parte ricavate dalla roccia e in parte si ergono a picco sui burroni circostanti.

La città è posta su di una rupe, a 470 m. s. m., di arenarie mioceniche all'estremità sud-est del lungo tavolato che congiunge le Serre all'Aspromonte e dista circa 10 km dalla costa jonica; era circondata anticamente da solide mura turrite e da porte che ne delimitavano l’accesso. Delle dodici porte ne sono sopravvissute soltanto quattro: Porta dei vescovi o della Meridiana, prossima alla Cattedrale, Porta Santa Lucia, Porta Maggiore e Porta del sole (nella foto). La struttura urbana è disposta su tre nuclei fondamentali: Borgo Maggiore, Borgo Minore e Città Alta

Ci serviamo del trenino turistico che fa un giro panoramico del paese, raccontando la storia di Gerace, svolgendo anche servizio di navetta per i turisti che come noi raggiungono la città in pulmann.

I sontuosi palazzi che abbelliscono Gerace sono quasi sempre forniti di portali in pietra lavorata da scalpellini locali e, pur, essendo spesso frutto di restauri ottocenteschi, a seguito dei danni causati alla città dal terremoto del 1783, ripetono spesso volumetrie proprie di una fase medievale (XIII-XV secolo); non è raro trovare, infatti, finestre bifore, archi a sesto acuto e finestre strombate. 
La ricca storia dell'arte della città può essere letta lungo le sue piazzette, i suoi vicoli, i muri delle sue case e i suoi palazzi storici, ma anche e soprattutto dalle numerose chiese monumentali edificate nel corso della sua lunga storia. Si dice che in città siano esistite ben 128 Chiese; alla fine del '700 se ne contavano circa 43, ma col terremoto del 1783 esse si ridussero a 17. Di queste, molte si trovano in uno stato di quasi abbandono. Arriviamo in Piazza delle Tre Chiese: la chiesa del Sacro Cuore di Gesù ne occupa un lato. Fu costruita sull’antico impianto dell’edificio dedicato a S. Stefano col nome di S. Maria della Sanità. Distrutta durante il terremoto del 1783, venne riedificata a cura della Confraternita del Sacro Cuore e di Maria SS. del Rosario nel 1851 (tuttora operante), sotto quest’ultimo titolo. Il portale e la facciata sono in stile barocco.

La seconda è la chiesa di San Giovanni Crisostomo, detta anche di San Giovannello, in pietra e mattoni, a navata unica, edificata attorno al X secolo. Attualmente di rito greco ortodosso, consacrata il 5 novembre 1991 quale Santuario Ortodosso Panitalico della Sacra Arcidiocesi Ortodossa d'Italia, è considerata la più antica Chiesa Ortodossa d'Italia; 
infine la terza è la chiesa di San Francesco d'Assisi, antichissimo luogo di culto dichiarata "bene architettonico" di interesse nazionale, importante edificio in stile gotico della Calabria. Costruita nel 1252 sulle rovine di un preesistente edificio romanico, si presenta a navata unica e faceva parte di un antico convento, fondato nei primi anni del XIII sec. da Daniele, compagno di san Francesco.

La struttura, di dimensioni ragguardevoli ma di forme estremamente semplici, è strettamente legata alle esperienze artistiche non solo francescane ma, principalmente angioine, con la necessità di realizzare architetture ecclesiastiche semplici e, pertanto, denuncianti la necessità, da parte della Chiesa cattolica, di ritornare all'integrità del messaggio evangelico. Il monumentale ingresso è sottolineato da un portale gotico databile agli anni ’30 del XIV secolo, presumibilmente di spoglio, a triplice archivolto con decorazioni di chiara ispirazione arabo-normanna.  

Ci accoglie il custode, mostrando fieramente la chiave originale del portale, e ci farà da guida appassionata per tutta la visita dell'interno.








 
L’interno dell’edificio si presenta composto da almeno due parti, assolutamente indipendenti tra loro, corrispondenti ad altrettanti luoghi di diverso significato e uso: un'aula rettangolare di 27 metri coperta da un tetto a capriate, illuminata da una serie di finestre a lancetta sui lati lunghi e sul lato corto occidentale, senza alcuna decorazione architettonica, scultorea o pittorica;





l'arco trionfale del 1664, in stile barocco e decorato con intarsi in marmi poilicromi, opera del frate geracese Bonaventura Perna, che mette in comunicazione l’aula con il presbiterio 








e il fastoso altare maggiore seicentesco in marmi policromi intarsiati, che costituisce uno dei più alti documenti del barocco calabrese, databile agli anni sessanta del Seicento e realizzato per volontà del frate Bonaventura Perna. L'altare è decorato con formelle realizzate con marmi provenienti dalla vicina cava di Prestarona, che riproducono sia elementi fitomorfi che forme zoomorfe e paesaggistiche.

Dettaglio dell'altare.






Oltre la parete diaframma dell'altare maggiore si trova il coro quadrangolare, che ospita il sarcofago di Nicola Ruffo di Calabria, datato 1372 e realizzato da maestranze provenienti da botteghe napoletane attive presso la corte angioina. 

La concattedrale di Santa Maria Assunta è una delle più importanti costruzioni normanne della Calabria e uno degli edifici religiosi più grandi della regione. La storia della chiesa è un susseguirsi di danneggiamenti e crolli, che culminano con il terremoto del 1783, a cui seguono accurati lavori di restauro e periodi di rinascita. E' stata dichiarata "bene architettonico" di interesse nazionale. 

Dall’esterno l’edificio appare come una fortificazione per l’imponente parete in pietra calcarea dalla quale sporgono due delle tre absidi semicilindriche. Sull'abside centrale si apre un portale ligneo del XIX secolo ad archi concentrici, sormontato da una finestra. Quella sinistra, di diametro inferiore, presenta invece una lunga feritoia. 

L’adiacente Arco dei Vescovi fu eretto verso la fine del ‘500 e aveva la funzione di dare maggior fasto all’ingresso dei presuli neo-eletti provenienti, sul dorso di un’asina bianca, dalla chiesa di S. Martino. Sulla sommità vi è una caratteristica meridiana tuttora funzionante con lo stemma del vescovo attuale. Oltrepassato l’arco, a settentrione si nota subito la terza abside primitiva. 




 



 




In stile bizantino-normanno, nonostante le modifiche e i rifacimenti conserva la purezza delle linee originarie, in cui le caratteristiche delle cattedrali normanne si fondono all’impianto bizantino. La struttura è divisa in due parti sovrapposte risalenti a periodi differenti, di cui una corrispondente alla cripta e l'altra alla Basilica vera e propria.
La parte inferiore della Cattedrale, di chiara costruzione bizantina, comunica con una serie di grotte scavate nella roccia risalenti al VIII secolo (quando Gerace era Santa Ciriaca), che costituiscono il nucleo originario della prima chiesa rupestre bizantina. Ha pianta a croce greca irregolare e una copertura a crociera poggiante su 26 colonne di spoglio provenienti da ville di età imperiale (o forse da un tempio in situ).

Tra queste grotte quella degna di nota corrisponde alla cappella della Madonna dell'Itria, piccolo ambiente ricavato nel 1261 da una chiesa rupestre, con volta a botte e decorazioni in marmo, pavimentata con maioliche geracesi del XVII secolo; lungo le pareti la serie dei "seggi dei canonici"  realizzati in marmo rosa e nero, con bassorilievi sugli schienali che rappresentano i titoli attribuiti alla Madonna nelle litanie. 

Il Sacello della Madonna dell’Itria è chiuso da un magnifico cancello in ferro battuto seicentesco, eseguito senza alcuna saldatura da maestranze provenienti da Serra San Bruno. Sull’altare è posta la statua marmorea della Madonna di Prestarona, probabilmente legata alla scuola di Tino da Camaino e databile all'inizio del Trecento. Anticamente qui era collocata un’icona raffigurante la Vergine dell’Itria, secondo la leggenda ritrovata in una cassa sulle rive del mare antistante. 

La Cripta ospita nella cappella di san Giuseppe un primo nucleo museale contenente oggetti preziosi che fanno parte del Tesoro della Cattedrale e altri manufatti che provengono dalle chiese di  S. Martino, S. Anna, Carmine e Sacro Cuore. Tra i tesori custoditi vanno menzionati: una stauroteca (custodia del sacro legno) in argento dorato, pietre dure e perline fabbricata probabilmente a Gerusalemme o nei laboratori normanni siciliani nel XII sec., un grande ostensorio ottocentesco in argento dorato e ornato da pietre dure, un calice in filigrana e pietre dure, datato 1726 e opera di argentieri siciliani, una statua dell'Assunta in argento realizzata nel 1722.

La basilica superiore è, invece, una grande struttura a tre navate separate da due file di dieci colonne, scanalate o lisce, in marmo policromo e granito, tutte diverse tra loro per qualità e dimensioni, che provengono dalle ville della Locri scomparsa. Le colonne sono interrotte al centro da due pilastri a T e sormontate da capitelli di diversa forma.

La mensa ecumenica in tufo bianco è stata consacrata nel 1995 dal vescovo Bregantini (vescovo di Locri-Gerace dal 1994 al 2007) con il Metropolita greco-Ortodosso Spiridione in uno spirito di fraterno ecumenismo come è possibile leggere nelle scritte in greco e in latino:  “INA OSIN EN – UT UNUM SINT” - “Che siano una cosa sola”.


La chiesa fu consacrata al culto nel 1045 (data riportata su due targhe affisse all'interno della chiesa, secondo quanto si legge nel Bollario del vescovo Ottaviano Pasqua di fine sec. XVI). In epoca sveva, nell'anno 1222, si ebbe una seconda consacrazione, probabilmente alla presenza dell'imperatore Federico II di Svevia, che si trovava di passaggio a Gerace.
A lato, dettaglio di una finestra del cortile (non è la targa citata, ma mi piaceva e l'ho fotografata).





La sosta pranzo è poca distanza da Gerace, in un paesaggio suggestivo, tra ulivi millenari, dove si trova il ristorante-pizzeria Il Lupo Cattivo. Ricavato da un antico frantoio, conserva intatto il fascino del luogo: in un'atmosfera d'altri tempi, è possibile gustare i piatti della cucina locale e nazionale. Vengono proposti gli antipasti della casa, con salumi, formaggi e frittelline locali e primi piatti a base di pasta fatta a mano, secondo le antiche ricette calabresi.

Pentedattilo è una frazione del Comune di Melito Porto Salvo posto a 250 metri s.l.m. ; sorge arroccato sulla rupe del Monte Calvario, dalla caratteristica forma che ricorda quella di una ciclopica mano con cinque dita, da cui deriva il nome: penta + daktylos = cinque dita. Sfortunatamente alcune parti della montagna sono crollate ed essa non presenta più tutte e cinque le "dita", ma rimane comunque un posto pieno di mistero, uno dei centri più caratteristici dell'Area Grecanica. Quello che era l'antico paese è risultato, dagli anni sessanta fino a pochi anni or sono, quasi del tutto abbandonato: la popolazione era infatti stata costretta da un decreto di sgombero resosi necessario per le continue minacce naturali, terremoti, crolli delle rocce e alluvioni, a spostarsi a valle, formando un nuovo piccolo centro dal quale si poteva ammirare il vecchio paese fantasma.

Nel borgo sta risorgendo una serie di attività: artigiani locali hanno aperto alcune botteghe per la vendita dei propri prodotti, c'è un ristorante e un piccolo museo. Il parziale ripristino ha compreso il rifacimento della pavimentazione della stradina principale e il restauro di alcuni edifici.
La storia di Pentedattilo è lunga e travagliata. Colonia calcidese nel 640 a.C., fu per tutto il periodo greco-romano un fiorente centro economico della zona; durante il dominio romano divenne inoltre un importante centro militare per la sua strategica posizione di controllo sulla fiumara Sant'Elia, via privilegiata per raggiungere l'Aspromonte. Con la dominazione bizantina iniziò un lungo periodo di declino, causato dai continui saccheggi che il paese subì prima da parte dei Saraceni ed in seguito anche da parte del Duca di Calabria. Nel XII secolo Pentedattilo fu conquistato dai Normanni e trasformato in una baronia affidata alla famiglia Abenavoli Del Franco dal re Ruggero d'Altavilla. Passò poi alla nobile famiglia reggina dei Francoperta e infine venduto alla famiglia degli Alberti insieme al titolo di marchesi. La dominazione degli Alberti, nonostante i tragici eventi legati alla cosiddetta Strage degli Alberti, durò fino al 1760 quando il feudo fu venduto ai Clemente, già marchesi di San Luca, e da questi ai Ramirez nel 1823.

Nella seconda metà del XVII secolo il paese di Pentedattilo fu teatro di un crudele misfatto noto come Strage degli Alberti, riportato alla luce dal romanzo di Andrea Cantadori "La tragedia di Pentidattilo".

Protagonisti di questa vicenda furono i membri di due nobili famiglie; quella degli Alberti, marchesi di Pentedattilo, e quella degli Abenavoli, baroni di Montebello Ionico ed ex feudatari di Pentedattilo.
Fra le due famiglie per lungo tempo vi era stata un'accesa rivalità per questioni relative a confini comuni; tuttavia verso il 1680 le tensioni fra le due casate sembravano andare scemando sia per pressioni del Viceré, che intendeva pacificare la zona, sia perché il capostipite della famiglia Abenavoli, il barone Bernardino, progettava di prendere in moglie Antonietta, figlia del marchese Domenico Alberti.

Nel 1685 il marchese Domenico morì e gli succedette il figlio Lorenzo, che alcuni mesi dopo la morte del padre sposò Caterina Cortez, figlia del Viceré di Napoli. In occasione di tale matrimonio da Napoli giunse in Calabria un lungo e sontuoso corteo che comprendeva, oltre alla sposa, il Viceré con la moglie e il figlio Don Petrillo Cortez. Don Petrillo ebbe quindi occasione di conoscere Antonietta e, rimasto dopo le nozze con la madre a Pentedattilo, causa una sua improvvisa malattia, ebbe l'occasione di frequentarla e di innamorarsene; chiese dunque a Lorenzo di poter sposare Antonietta ed il marchese Alberti acconsentì alle nozze della sorella.

La notizia del fidanzamento ufficiale fra Don Petrillo Cortez e Antonietta Alberti mandò su tutte le furie il barone Bernardino Abenavoli che, ferito nei sentimenti e nell'orgoglio, decise di vendicarsi su tutta la famiglia Alberti. Nella notte del 16 aprile 1686 Bernardino, grazie al tradimento di Giuseppe Scrufari, servo infedele degli Alberti, si introdusse all'interno del castello di Pentedattilo con un gruppo di uomini armati. Giunto nella camera da letto di Lorenzo, lo sorprese durante il sonno sparandogli due colpi di archibugio e finendolo con 14 pugnalate.

In seguito, assieme ai suoi uomini, si lanciò all'assalto delle varie stanze del castello uccidendo gran parte degli occupanti compreso Simone Alberti, fratellino di 9 anni di Lorenzo, mortalmente sbattuto contro una roccia. Da tale massacro furono risparmiati Caterina Cortez, Antonietta Alberti, la sorellina Teodora, la madre Donna Giovanna e Don Petrillo Cortez, preso in ostaggio come garanzia contro eventuali ritorsioni del Viceré verso gli Abenavoli.

Dopo la strage Bernardino trascinò nel suo castello a Montebello Ionico l'ostaggio Don Petrillo Cortez e l'amata Antonietta, che sposò il 19 aprile 1686. La notizia della strage in pochi giorni giunse al Governatore di Reggio, quindi al Viceré Cortez che inviò una vera e propria spedizione militare. L'esercito, sbarcato in Calabria, attaccò il Castello degli Abenavoli, liberò il figlio del Viceré e catturò sette degli esecutori della strage (compreso lo Scrufari), le cui teste furono tagliate ed appese ai merli del castello di Pentedattilo.

Il barone Abenavoli, grazie a vari espedienti e appoggi, riuscì a sfuggire alle truppe del Viceré insieme ad Antonietta e, dopo aver affidato la moglie ad un convento, scappò prima a Malta ed in seguito a Vienna dove entrò nell'esercito austriaco. Nominato capitano, fu ucciso da una palla di cannone durante una battaglia navale il 21 agosto 1692.

Antonietta Alberti, il cui matrimonio con Bernardino fu annullato dalla Sacra Rota nel 1690 perché contratto per effetto di violenza, finì i suoi giorni nel convento di clausura di Reggio Calabria, consumata dal dolore e dell'angoscia di essere stata lei l'involontaria causa dell'eccidio della sua famiglia.

Nella foto, i ruderi del castello.

La storia della Strage degli Alberti nel corso dei secoli ha dato origini a varie leggende e dicerie. Una di queste afferma che un giorno l'enorme mano si abbatterà sugli uomini per punirli della loro sete di sangue. Un'altra dice che le torri in pietra che sovrastano il paese rappresentano le dita insanguinate della mano del barone Abenavoli (per questo motivo Pentedattilo è stata più volte indicata come "la mano del Diavolo"). Un'altra infine narra che la sera, in inverno, quando il vento è violento tra le gole della montagna si riescono ancora a sentire le urla del marchese Lorenzo Alberti, mentre nelle sere di sola luna piena, si possono udire lamenti provenire dall'alto della montagna: probabilmente si tratta dei morti che, dall'aldilà, reclamano vendetta. E molte altre ce ne sarebbero da raccontare...

La Chiesa dei santi Pietro e Paolo, eretta nel primo Seicento, fu il punto di riferimento della cultura grecanica di Pentidattilo per qualche decennio, prima di passare al rito latino a metà del XVII secolo: a questo periodo risalgono anche i primi lavori di ristrutturazione, dovuti principalmente all’adozione del nuovo rito. In seguito venne più volte rimaneggiata a causa di interventi di ampliamento e di riparazione per i sismi che interessarono la zona,soprattutto quello del 1783. Il campanile è a base quadrata, a due ordini, in linea con la facciata della chiesa e il cui pinnacolo, ottagonale, è ricoperto da ceramiche.

A partire dagli Anni Settanta ha seguito la sorte del resto di Pentedattilo vecchia, divenuta un paese fantasma per via dello spostamento più a valle della popolazione residente. Dopo secoli di centralità, ha vissuto decenni di abbandono e vandalismo, che comportarono il furto di opere d’arte di grande valore, finite in chissà quali collezioni private, ma anche di decorazioni strutturali (furono divelte intere pavimentazioni). Oggi è possibile ammirare opere pittoriche ispirate agli originali trafugati, che cercano di ripristinare l’antica atmosfera della Chiesetta, come la tela con la riproduzione dell’Assunzione di Maria Vergine, sull'altare principale, che ora esiste grazie a una riproduzione tratta da una vecchia foto a colori. 


La Chiesa conserva la tomba della famiglia Alberti, di cui ho parlato più sopra per la storia/leggenda che da secoli pervade il borgo misterioso di Pentedattilo e il suo castello. Sulla tomba è inciso lo stemma della famiglia.







 

Il piccolo Museo delle Tradizioni Popolari è allestito tra alcuni antichi edifici; si possono ammirare oggetti e materiali tipici della tradizione contadina, tra i quali un antico telaio per preparare coperte con i filati della ginestra. 



Salutiamo i numerosi gatti che hanno trovato tranquilla e serena dimora tra le mura del borgo incantato


 
diamo un'ultima occhiata al paesaggio fantastico circondato da fichi d'india 

e ce ne torniamo al pulmann, che ci riporta in albergo, ultima notte di gita. Il 4 ottobre infatti è dedicato alla visita individuale di Reggio e al volo di rientro a casa. 
Si chiude quindi qui anche questa bellissima gita. 
Alla prossima!