Il MuseoArcheologico Nazionale di Paestum è uno dei maggiori musei
"di sito" in Italia. Le diverse sezioni che lo compongono
consentono al visitatore di ripercorrere la storia della
città greca, lucana e romana.
Il museo contiene numerosi reperti provenienti dalla città,
dall'Heraion alla foce del Sele e dalle necropoli vicine
(necropoli del Gaudo, necropoli di Santa Venera e altre).
Realizzato
nel 1952 utilizzando parte di un più ampio progetto
elaborato nel 1938 il Museo sorge all'interno della cinta
muraria. Il nucleo principale fu costruito in funzione della
struttura che accoglie la serie di metope
arcaiche provenienti dal Santuario di Hera alla
foce del Sele, ma ben presto si dimostrò insufficiente a
contenere ed esporre i numerosi oggetti riportati alla luce dai
successivi scavi archeologici della città e delle necropoli. Furono
quindi predisposti nuovi ambienti, costruiti intorno a
un giardino interno e con vetrate aperte verso
l'esterno. Le grandi scoperte delle numerose tombe
dipinte lucane e della Tomba del Tuffatore nel 1968 resero
poi necessaria una nuova sistemazione del museo.
Il percorso espositivo si snoda su tre piani suddivisi in sette sezioni:
-
La sezione preistorica
-
L'origine della città
-
L'Heraion alla foce del Sele
-
I santuari urbani
-
La necropoli di Poseidonia-Paestum
-
Le tombe dipinte lucane
-
La sala romana
-
Le metope arcaiche dell'Heraion del Sele
-
La tomba del tuffatore
-
Le stele in lingua osca
-
La tomba a camera di Spinazzo
L'Heraion alla foce
del Sele o tempio di Hera Argiva è un antico santuario
della Magna Grecia dedicato alla dea Era, situato in origine alla
foce del fiume Sele, a circa 9 km dalla città di Paestum. Il
santuario si trova ora a circa 1,5 km dall'attuale linea di costa, a
seguito dell'avanzamento di quest'ultima, rispetto all'antica
collocazione, per il deposito dei sedimenti alluvionali portati dal
fiume. L'esistenza del santuario è testimoniata da fonti storiche:
Strabone lo colloca al confine settentrionale della Lucania, sulla
sinistra idrografica del fiume Sele, a 50 stadi dalla città pestana
e ne attribuisce la fondazione a Giasone durante la spedizione degli
Argonauti. Lo stesso santuario viene collocato da Plinio il Vecchio
sulla sponda opposta del fiume. Una simile imprecisione, consueta
nell'opera dello scrittore latino, avrà l'effetto di offuscare il
dato storico rendendone problematico il ritrovamento dei resti.
Il santuario fu fondato agli inizi del VI secolo
a.C. dai greci provenienti da Sibari e dedicato alla dea Hera Argiva,
protettrice della navigazione e della fertilità. Inizialmente vi si
doveva svolgere un culto all'aperto, in un'area sacra dotata di un
altare e delimitata da portici, destinati all'accoglienza dei
pellegrini. Alla fine del VI secolo si ebbe la costruzione di un
grande tempio, probabilmente ottastilo (con otto colonne sulla
facciata) e periptero. Insieme furono costruiti, davanti ad esso, a
una certa distanza, due altari monumentali.
(Foto scattata al museo di Paestum)
Dopo l'arrivo dei Lucani, alla fine del V secolo
a.C., si ebbe il momento di massima fioritura del santuario, con la
costruzione di nuovi edifici che riutilizzarono i materiali di quelli
più antichi: un nuovo portico e, accanto, un edificio per riunioni.
A una certa distanza venne edificato inoltre un edificio quadrato in
cui sono state rinvenuti numerosi pesi da telaio e dove si è
ipotizzato che le fanciulle da marito tessessero il peplo per la
statua di culto, offerto alla dea con una processione annuale. Qui è
stata trovata una statua in marmo di Hera, seduta in trono e con in
mano una melagrana.
Nel 273 a.C. l'area fu
conquistata dai Romani: l’edificio per la tessitura fu distrutto e
fu costruito un recinto intorno all'area sacra. Il santuario
sopravvisse fino al II secolo d.C., in una progressiva decadenza,
finché, anche per l'impaludamento della zona, si perse
gradualmente ogni forma di memoria della sua ubicazione. Il culto di
Hera sopravvisse successivamente in forme cristiane con la "Madonna
del Granato".
Il santuario venne
rimesso in luce dagli scavi tra il 1934 e il 1940. Sono state
rinvenute circa settanta metope con raffigurazioni scolpite in
arenaria locale. Circa quaranta appartengono a un ciclo più antico
(seconda metà del VI secolo) e dovevano decorare edifici oggi non
più riconoscibili. Le metope di questo ciclo raffigurano episodi del
mito delle dodici fatiche di Ercole e del ciclo Troiano, ma anche di
Giasone e di Oreste. Sono scolpite abbassando il fondo all'esterno
della linea di contorno delle figure: in questo modo, la parte in
rilievo rimane molto piatta. Questo indicherebbe che la
raffigurazione, nei suoi particolari, era probabilmente completata
dal colore.
Il ciclo più recente, di circa 30 metope, raffigura invece delle fanciulle danzanti, rese a bassorilievo. Le metope sono collocate nel Museo archeologico nazionale di Paestum; la loro collocazione museale riprende la presumibile struttura del tempio a cui erano state inizialmente attribuite.
Il ciclo più recente, di circa 30 metope, raffigura invece delle fanciulle danzanti, rese a bassorilievo. Le metope sono collocate nel Museo archeologico nazionale di Paestum; la loro collocazione museale riprende la presumibile struttura del tempio a cui erano state inizialmente attribuite.
Gli scavi hanno inoltre restituito una grande quantità di doni votivi (per lo più statuette in terracotta raffiguranti la dea), che dopo qualche tempo venivano seppelliti: un primo deposito realizzato nei pressi del tempio era costituito da cinque fosse rivestite da lastroni in pietra e con coperchio pure in pietra. Tracce di bruciato si riferiscono ai sacrifici offerti e i materiali depositati vanno dal VI al II secolo a.C.
È stata rinvenuta anche una seconda grande fossa, con circa seimila oggetti tra statuette in terracotta e piccoli oggetti in bronzo databili tra il IV e il II secolo a.C. (ma con alcune monete del II secolo d.C., in piena epoca romana imperiale).
Gran parte dei doni votivi sono visibili sul sito stesso del santuario, nel "Museo narrante del santuario di Hera Argiva alla foce del Sele", ospitato nella masseria Procuriali ristrutturata.
La cultura del Gaudo
è una cultura eneolitica (età del rame) sviluppatasi nel sud Italia
tra la fine del IV e la prima metà del III millennio a.C.. Prende il
nome dalla necropoli di Spina-Gaudo
situata nei pressi della foce del fiume Sele, in provincia di
Salerno. Le tracce più antiche di insediamenti umani nella zona
pestana risalgono al paleolitico; le più recenti sono quelle che si
riferiscono alla cultura del Gaudo.
La necropoli
è stata scoperta casualmente durante la costruzione di una
pista d'atterraggio da parte degli alleati anglo-americani, presenti
in zona dopo lo sbarco a Salerno del 9 settembre 1943. Per la pista
viene individuata la zona della piana di Paestum, ma durante i lavori
emergono i resti di quella che è senza dubbio la più antica
testimonianza di insediamento umano dell’area. Posta a circa un
chilometro da Paestum, si estende per un'area di circa 2000 m², in
cui sono state rinvenute 34 tombe.
Le tombe a "forno"
erano scavate nella roccia calcarea con un pozzetto d'accesso
che conduceva a una o due camere sepolcrali a sepoltura multipla. Il
rito funebre era svolto da più persone; una volta conclusosi, la
cella sepolcrale era chiusa da una grande lastra di pietra. Le
sepolture erano utilizzate per successive deposizioni; in questo
caso, i resti del defunto più recente venivano spostati in fondo
alla cella, insieme a quelli che lo avevano preceduto. Si sono
trovati da un minimo di due a un massimo di venti scheletri circa,
che originariamente erano in posizione fetale.
Nella foto, ricostruzione di una delle 34 tombe ritrovate.
Nelle tombe sono stati
ritrovati numerosi askoi, caratteristici vasi a saliera, oltre ad
alcuni arnesi di selce. Lo studio della disposizione delle ossa e
degli arredi funebri ha fatto ritenere agli studiosi che queste genti
si raggruppassero in clan familiari di indole guerriera.
La Necropoli del Gaudo
è facilmente accessibile e purtroppo ciò ha permesso a
tombaroli e malviventi di trafugare molti resti, saccheggiando le
tombe e creando danni al sito. Si tratta tuttavia di un sito molto
importante dal punto di vista storico, e molti dei reperti rinvenuti
all’interno delle camere sepolcrali sono visibili presso il Museo
Archeologico Nazionale di Paestum.
Vediamo alcuni reperti interessanti.
La
svastica (simbolo: 卐
o
卍)
è un antico simbolo religioso originario delle culture dell'Eurasia,
specialmente quelle di matrice indoeuropea. Rimane un simbolo
largamente utilizzato nelle religioni dell'India e della Cina, nonché
nello sciamanesimo della Mongolia e della Siberia, e in vari nuovi
movimenti religiosi. Come simbolo, generalmente sempre con
significati augurali o di fortuna, fu utilizzato da molte culture fin
dal Neolitico ma esistono alcuni rari reperti risalenti persino al
tardo Paleolitico. Rappresenta l’universo e il ciclo del sole che
sorge e tramonta senza fermarsi mai. La svastica compare come simbolo
decorativo sulle vesti femminili nella valle dei templi di Paestum e
come motivo decorativo vascolare su antichi vasi greci.
La svastica
compare anche come motivo ornamentale nella pavimentazione a mosaico
di un edificio termale romano all'interno della zona archeologica di
Velia, l'antica Elea.
Fregio.
Decorazione templi.
Ancora decorazione.
Anfora
a figure nere e parte del miele, sostanza usata nella libagioni dei
defunti, trovata nell’heroon.
Altra bella anfora.
Altra bella anfora.
Il cratere era
un grande vaso utilizzato per mescolare vino e acqua nel simposio
greco. Nel corso del banchetto i crateri venivano posti al centro
della stanza e venivano riempiti di vino, a cui veniva aggiunta acqua
per diluirlo ed abbassare il contenuto alcolico. Presenta un corpo
tondeggiante, con corte anse per il trasporto e una larga
imboccatura.
La tomba del Tuffatore fu rinvenuta da Mario Napoli il 3 giugno del 1968, a meno di due chilometri a sud di Paestum, in una località denominata Tempa del prete. Gli oggetti di corredo, in particolare la lekythos attica a figure nere, unitamente alle considerazioni stilistiche, hanno permesso una chiara datazione al decennio compreso tra il 480 e il 470 a.C. Il manufatto si situa quindi nell'epoca aurea dell'arte pestana. Alcune delle scene rappresentate richiamano una cornice conviviale, interpretando schemi tipici e di ampia diffusione nella coeva ceramica attica a figure rosse.
Parete nord. Un convitato, accompagnato dal flauto del suo vicino, si cimenta in un canto, reclina il capo e la mano va a toccarsi la fronte, abbandonandosi al gesto convenzionale dell'estasi.
Parete ovest. Una giovane inaugura un breve corteo scandendo, al suono del suo strumento, l'incedere leggero di un efebo nudo, forse un atleta che, le spalle cinte appena da un leggero drappo azzurro, pare quasi indugiare nell'ampio gesto disteso della mano destra. Chiude il corteo un uomo maturo, forse un pedagogo, ammantato da un chitone e appoggiato al bastone da passeggio.
Parete sud. Musica e conversazione si inframezzano a invocazioni al bere o al gioco del cottabo. Due ospiti, posate le coppe su un basso tavolino, indugiano in gesti di affetto omosessuale sotto lo sguardo incuriosito di un terzo. Sembra trasparire un'ironia caricaturale dalla scena raffigurante le avance mosse, con espressione quasi ebete, al suonatore di lira dal suo amante.
Parete est. Alla kylix protesa da uno dei simposianti sembra fare eco, da una delle pareti corte, un giovane il quale, attinto il vino da un grosso cratere, se ne allontana.
Corredo femminile di una tomba lucana.
Dettaglio.
Lo Speed
Art Museum di
Louisville nel Kentucky (Usa) restituisce all’Italia un cratere in
ceramica del IV secolo a.C., frutto di scavi
clandestini nella
zona di Paestum. Il cratere, dipinto con figure rosse,
raffigura Dionisio,
dio greco del vino e del teatro, mentre gioca a cottabo,
gioco diffuso tra i greci che consisteva nel colpire un bersaglio con
l’ultima goccia di vino rimasta nel calice. La restituzione è
frutto di accordi
culturali tra
il Mibact e il museo americano, che ha proposto volontariamente il
ritorno del reperto dopo aver ricevuto prove che dimostrano l’esportazione
clandestina dall’Italia.
La
Tomba del Tuffatore è
un manufatto dell'arte funeraria della Magna Grecia di rilevante
valore storico-artistico: le pareti del manufatto e, cosa ancor più
insolita, la stessa lastra di copertura, sono interamente intonacate
e decorate con pittura parietale di soggetto figurativo, realizzata
con la tecnica dell'affresco. Si tratta dell'unica testimonianza nota
di pittura greca, figurativa e non vascolare. La tomba prende il nome
dalla raffigurazione sulla lastra di copertura, l'interpretazione
della quale è ancora oggetto di discussione.
Si
tratta di una tomba a cassa, costituita da cinque lastre calcaree in
travertino locale che, al momento del ritrovamento, si presentavano
fra loro accuratamente interconnesse e stuccate. Il pavimento della
cassa era costituito dallo stesso basamento roccioso su cui era
realizzata la tomba.
La tomba del Tuffatore fu rinvenuta da Mario Napoli il 3 giugno del 1968, a meno di due chilometri a sud di Paestum, in una località denominata Tempa del prete. Gli oggetti di corredo, in particolare la lekythos attica a figure nere, unitamente alle considerazioni stilistiche, hanno permesso una chiara datazione al decennio compreso tra il 480 e il 470 a.C. Il manufatto si situa quindi nell'epoca aurea dell'arte pestana. Alcune delle scene rappresentate richiamano una cornice conviviale, interpretando schemi tipici e di ampia diffusione nella coeva ceramica attica a figure rosse.
Dieci
uomini inghirlandati, adagiati sui tipici letti triclinari, animano
le raffigurazioni delle pareti più lunghe (nord e sud). Le mani sono impegnate a
sorreggere le kylikes, (coppe da vino in ceramica) o ad impugnare strumenti musicali, il diaulos (una specie di flauto)
o la lira.
Parete nord. Un convitato, accompagnato dal flauto del suo vicino, si cimenta in un canto, reclina il capo e la mano va a toccarsi la fronte, abbandonandosi al gesto convenzionale dell'estasi.
Parete ovest. Una giovane inaugura un breve corteo scandendo, al suono del suo strumento, l'incedere leggero di un efebo nudo, forse un atleta che, le spalle cinte appena da un leggero drappo azzurro, pare quasi indugiare nell'ampio gesto disteso della mano destra. Chiude il corteo un uomo maturo, forse un pedagogo, ammantato da un chitone e appoggiato al bastone da passeggio.
Parete sud. Musica e conversazione si inframezzano a invocazioni al bere o al gioco del cottabo. Due ospiti, posate le coppe su un basso tavolino, indugiano in gesti di affetto omosessuale sotto lo sguardo incuriosito di un terzo. Sembra trasparire un'ironia caricaturale dalla scena raffigurante le avance mosse, con espressione quasi ebete, al suonatore di lira dal suo amante.
Parete est. Alla kylix protesa da uno dei simposianti sembra fare eco, da una delle pareti corte, un giovane il quale, attinto il vino da un grosso cratere, se ne allontana.
Sulla
lastra di copertura vi è infine la celebre scena che ha dato il nome
alla sepoltura, un tema totalmente estraneo all'arte greca: un
giovane nudo è sospeso nell'istante del tuffo solitario in uno
specchio d'acqua. Un'interpretazione
simbolica, quale emblema di un trapasso ultraterreno, si presta bene
a denotare la scena del tuffo. La piattaforma da cui si slancia il
tuffatore allude forse alle mitiche colonne poste da Ercole a
segnare il confine del mondo, assurte a simbolo del limite della
conoscenza umana. La serie
dei dipinti sulle lastre
è probabilmente opera di artisti locali fortemente ispirati dal
modello greco.
La
tomba, sebbene unica nel suo genere, non costituisce il solo esempio
della pittura funeraria pestana. A pochi decenni di distanza dalla
sua realizzazione, la città venne conquistata dai Lucani, le cui
tombe presentano un ricco ciclo di raffigurazioni. Appartenenti
perlopiù alla seconda metà del IV secolo a.C., sono oggi esposte
nelle sale successive a quella della Tomba del Tuffatore, all'interno
del Museo.
Ai
temi del Tuffatore si vanno a sostituire corse
di bighe e quadrighe, guerrieri a cavallo in partenza per l'ultimo
viaggio, pugilatori,
cani, cervi, cacciatori, ippogrifi. Sono nuovi soggetti, espressione
del cambiamento della classe politica pestana.
Gli antichi seppellivano i morti fuori le mura, nelle necropoli (città dei morti). Le tombe e i corredi funerari rispecchiano lo status sociale della famiglia del defunto oltre ai valori della comunità. A partire dagli anni Sessanta di questo secolo gli scavi hanno riportato in luce alcune tombe lucane dipinte di particolare importanza per la storia della pittura dell’antichità. Una di queste probabilmente custodiva un guerriero e le lastre tombali sono state dipinte con un cavaliere in sella al suo cavallo e corse di bighe, che rimandano ai giochi funebri svolti in onore del defunto. Sembra persino che la lotta tra gladiatori sia nata proprio per questo.
Corredo maschile di una tomba lucana.
Corredo maschile di una tomba lucana.
Corredo femminile di una tomba lucana.
Dettaglio.
Lasciamo
il museo e andiamo a visitare un caseificio in zona, dove producono
la famosa mozzarella di bufala campana. Le bufale ci guardano
ruminando, avvolte da un fetore quasi insopportabile.
Una veloce
occhiata a un reperto che non è importante come quelli che abbiamo
appena lasciato, ma ha un suo fascino: una vecchia motocicletta
adibita al trasporto del latte. Torniamo quindi al villaggio, dove
pranziamo e passiamo il pomeriggio in relax.
La
cronaca continua.
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