giovedì 31 agosto 2017

Gita in Friuli - Spilimbergo, San Daniele, Aquileia

2 giugno: Spilimbergo, San Daniele del Friuli, Aquileia.


Nel cuore del Friuli, a due passi dalle grandi città, sorge Spilimbergo. La sua storia inizia attorno all'XI secolo, quando i conti Spengenberg, originari della Carinzia, si trapiantarono nella zona in qualità di vassalli del patriarca di Aquileia.
 
Interessante mosaico di Spilimbergo antica.





Spilimbergo ebbe grande splendore nel Medioevo e nel Rinascimento e conserva ancora oggi l’impianto urbano dell’epoca, con strade porticate, vicoli e piazzette, palazzi affrescati e innumerevoli opere d’arte nelle chiese. Come prima tappa siamo andati alla Scuola Mosaicisti del Friuli che è attiva dal 1922, fondata su iniziativa di Lodovico Zanini (delegato della Società Umanitaria di Milano a Udine) e di Ezio Cantarutti (Sindaco di Spilimbergo) per offrire opportunità di studio e di lavoro ai giovani. Gian Domenico Facchina, mosaicista e imprenditore di Sequals (Pordenone), ha messo a punto la tecnica musiva a rovescio su carta.
La conoscenza e l’esperienza dell'arte del mosaico è stata tramandata dai magistri musivari ai giovani apprendisti di generazione in generazione direttamente nei cantieri di lavoro, e questo saper fare è giunto integro sino all’istituzione della Scuola, che importa studenti di tutto il mondo (attualmente 22 sono le nazionalità presenti) ed esporta opere d’arte nei luoghi più significativi.
L’obiettivo è quello di coniugare il mantenimento della tradizione con l’innovazione. Si punta quindi alla sperimentazione e alla ricerca per trovare soluzioni nuove, soprattutto nel campo dell’arredo urbano e degli interni. Per questo alle tradizionali materie di studio (mosaico, terrazzo e disegno) si affiancano la grafica computer, la progettazione musiva e la teoria del colore. Negli ultimi anni la Scuola si è aperta a tutto campo, confrontandosi felicemente con vari settori: dall’architettura al design, dall’arte contemporanea al restauro.

I corsi professionali per mosaicisti hanno la durata di tre anni. L’iscrizione al primo anno prevede un numero massimo di cinquanta allievi, di cui venticinque residenti nella Regione Friuli Venezia Giulia. Per essere ammessi ai corsi professionali occorre essere in possesso del diploma di scuola media superiore o della promozione alla terza classe superiore e non avere superato il trentesimo anno di età. I corsi di perfezionamento sull’arte musiva sono rivolti a un numero limitato di allievi già qualificati presso la Scuola Mosaicisti del Friuli. La durata è annuale e la frequenza obbligatoria.
La partecipazione degli allievi più meritevoli è sostenuta dalla Scuola con borse di studio.
Una Scuola che, forse unica anche in questo, ricerca e distribuisce attivamente occasioni di lavoro per i suoi ex allievi, convinta della necessità di compiere, oltre al dovere della formazione, anche quello dell’inserimento dei giovani nel mondo professionale.


La Scuola Mosaicisti del Friuli viene invitata a esporre, e nel contempo a far conoscere l’arte musiva, in molti contesti internazionali. Ed è così che la sua triplice funzione – didattica, produttiva e promozionale – le consente di valorizzare la tecnica del mosaico attualizzandola: dal 1922 una tradizione in evoluzione.
Dal progetto dell’opera alla sua esecuzione, fino all’applicazione in sito, la Scuola prepara gli allievi integrando le cognizioni teoriche con la pratica, a diretto contatto con il mondo del lavoro.
Lasciamo la scuola e ci dirigiamo verso il centro.


Il cuore della città è sicuramente Corso Roma, che attraversa il centro storico da est a ovest e sul quale si affacciano storici edifici multicolori. Percorrendo la via si incontra la Torre occidentale, risalente al XIV secolo e che era l'ingresso al Borgo Nuovo, racchiuso dalla terza cinta muraria.

Proseguendo ancora si arriva alla Torre Orientale, che apparteneva alla seconda cinta muraria. Adagiata alla torre si può ammirare la Casa Dipinta, con affreschi del XVI secolo rappresentanti scene della vita di Ercole.

Corso Roma termina in piazza Duomo, delimitata a sud dalla chiesa di Santa Maria Maggiore, duomo della città. La chiesa fu voluta dal signore di Spilimbergo Walterpertoldo nel 1284 e la prima pietra venne posata il 4 ottobre dello stesso anno. La costruzione si prolungò fino circa al 1359, anche se il duomo fu consacrato solamente nel 1453. L'irregolarità della pianta della costruzione si deve, più che a ripensamenti o rifacimenti, allo sfruttamento di strutture già esistenti e alla conformazione del territorio. Infatti l'edificio fu costruito addossato a una cinta muraria, e il campanile risulta costruito su un portale della stessa.


In questa bella piazza si svolgevano le trattative, si eseguivano i controlli sulle merci e si pagavano le gabelle. Restano a testimoniarlo il duecentesco Palazzo del Daziario, sede dei magistrati, e il Palazzo della Loggia (XIV se.), dove venivano immagazzinate le merci ed effettuati controlli.

Su una colonna del portico è incisa la Macia, l’antica unità di misura di lunghezza. La Rievocazione Storica della Macia di Spilimbergo è la manifestazione di punta della cittadina, inserita nella splendida cornice storica del borgo vecchio, all’interno della prima cinta muraria. Prende il nome dall’antica misura di lunghezza per stoffe, la macia appunto, in uso a Spilimbergo già nel 1438. La manifestazione ricrea il clima della vita quotidiana della città, una delle più importanti a livello politico e culturale in Friuli, agli inizi del ‘500.


Fotografia della targa.  





 
Dalla piazza, attraverso un ponte sull'antico fossato, si entra nel Castello, l'edificio più orientale della città, costruito sul limitare del fiume Tagliamento. Risale al 1120 il primo documento che parla del Castrum de Spengenberg. Distrutto da un incendio nel 1511 fu ricostruito secondo schemi medioevali.
Al suo interno il quattrocentesco Palazzo Dipinto dalle belle trifore gotiche e rinascimentali e dagli scenografici affreschi sulla facciata, attribuiti ad Andrea Bellunello, che lavorò a Spilimbergo fra il 1469 e il 1475.

A nord del castello si trova il Palazzo di sopra, recentemente restaurato e ora sede del Municipio. Dal cortile del palazzo si gode di una magnifica vista sulla valle del Tagliamento. Di fronte al palazzo il quartiere Valbruna, dalla tipica struttura medioevale.

La storia del Castello si confonde con quella dei Signori di Spilimbergo, gli Spengenberg, famiglia di nobili di origine carinziana, fedeli all’Impero, tra le più ragguardevoli in Regione e fra quelli presenti nel Parlamento del Friuli, “ministeriales” del Patriarcato di Aquileia. Facendo leva sul loro potere e prestigio, entrarono spesso in contrasto con il Patriarca e in più di un’occasione complottarono contro di lui. L’episodio più celebre e drammatico avvenne nel 1350, durante la guerra civile feudale che insanguinò il Friuli: nella piana della Richinvelda, pochi chilometri a sud della città, in un agguato alcuni feudatari partiti dal Castello di Spilimbergo e guidati dagli Spengenberg affrontarono e uccisero il vecchio ma energico patriarca (poi proclamato Beato) Bertrando di San Genesio. Un antico cippo, eretto nella piana, ricorda il luogo dove il Patriarca fu colpito a morte dai suoi nemici, i Signori di Spilimbergo, il 5 giugno del 1350. 

Il Castello sostenne numerosi assedi nel corso delle guerre medievali tra i signori veneti e friulani, resistendo ai ripetuti assalti dei da Camino. Non è possibile ricostruire come il Castello apparisse all’epoca, poiché venne distrutto, demolito, ricostruito e ampliato più volte.
Ciò che oggi è visibile del Castello di Spilimbergo, dunque non risale ad un originario edificio, ma ad una serie di modifiche che si sono venute a sommare durante i secoli.
Già danneggiato da un terremoto, il Castello nel 1511 fu incendiato nel corso di una rivolta popolare; l’ala sud non fu più ricostruita, si salvò solo il cosiddetto Palazzo Dipinto. Fu ancora modificato nel 1566; nel 1865 fu demolita la torricella sul ponte e ampliato l’ingresso; furono inoltre effettuati altri cambiamenti (scomparsa del ponte levatoio, delle torri, delle merlature, di terrazze e giardini) che portarono all’attuale configurazione.
Il Castello si presenta oggi come un agglomerato di residenze signorili, disposte ad anello attorno all’ampia corte centrale, ed è circondato per metà da un profondo fossato, mentre per il resto è a picco su di una scarpata del Tagliamento.

Lasciamo Spilimbergo per andare a San Daniele del Friuli, dove visiteremo il prosciuttificio DOK DALL'AVA e ci fermeremo a pranzo.

Il comune di San Daniele, arroccato sulla sommità di un colle a 252 m s.l.m., è al centro del Friuli e domina la pianura circostante. E' una città raccolta ed accogliente con diversi tesori artistici. Il territorio gode di un'aria particolare che dona ai prosciutti (prodotti localmente), un sapore unico e inconfondibile conosciuto in tutto il mondo. A poca distanza dal colle, le limpide acque del Tagliamento sono la naturale dimora della trota (qui chiamata "la regina di San Daniele") che viene allevata e lavorata in modo artigianale. La città può vantare la vicinanza al Mare Adriatico a sud e alla Carnia a nord.

Prosciutto di San Daniele (DOP) è un prosciutto crudo stagionato riconosciuto prodotto a Denominazione di Origine dal 1970 dallo Stato italiano con la legge n. 507 e dal 1996 dall'Unione europea come prodotto a Denominazione di Origine Protetta - DOP: perché le sue caratteristiche uniche e irripetibili sono dovute al particolare ambiente geografico, che include fattori naturali e umani. Il Prosciutto di San Daniele viene prodotto da 31 aziende nel comune di San Daniele del Friuli, in provincia di Udine secondo modalità rigorosamente definite dal relativo Disciplinare di produzione che ha valore di legge. Solo i prosciutti che rispettano tutti i parametri sono certificati e su di essi viene impresso a fuoco il marchio del Consorzio, che comprende il codice identificativo del produttore e costituisce elemento di certificazione e garanzia.


Siamo andati al prosciuttificio Dok Dall'Ava, dove ci hanno illustrato le varie fasi della produzione del loro ottimo prosciutto e poiché sono anche punto di ristoro abbiamo pranzato, rigorosamente tutto a base di crudo DOP. Sazi e un po' sonnacchiosi ci siamo poi diretti ad Aquileia, ultima tappa della giornata.
Fondata nel 181 a.C. come colonia di diritto latino da parte dei triumviri romani Lucio Manlio Acidino, Publio Scipione Nasica e Gaio Flaminio mandati dal Senato a sbarrare la strada ai barbari che minacciavano i confini orientali d'Italia, la città dapprima crebbe quale base militare per le campagne contro gli Istri e i Carni e poi per l'espansione romana verso il Danubio. I primi coloni furono 3500 fanti seguiti dalle rispettive famiglie.

Divenne centro politico-amministrativo (capitale della X Regione augustea, Venetia et Histria) e prospero emporio, avvantaggiata dal lungo sistema portuale e dalla raggiera di importanti strade che se ne dipartivano sia verso il Nord, oltre le Alpi e fino al Baltico ("via dell'ambra"), sia in senso latitudinale, dalle Gallie all'Oriente. Fin da tarda età repubblicana e durante quasi tutta l'epoca imperiale Aquileia costituì uno dei grandi centri nevralgici dell'Impero Romano. Notevole fu la vita artistica, sostenuta dalla ricchezza dei committenti e dall'intensità dei traffici e dei contatti.

Ha un’area archeologica di eccezionale importanza, considerata dall’Unesco Patrimonio dell’umanità.

Nella foto, ricostruzione di Aquileia antica.

Aquileia esercitò una nuova funzione morale e culturale con l'avvento del Cristianesimo che, secondo la tradizione, fu predicato dall'apostolo san Marco, e il cui sviluppo fu in ogni caso fondato su una serie di vescovi, diaconi e presbiteri che subirono il martirio. I primi furono Ermagora e Fortunato (circa 70 d.C.). Nel 313 l'imperatore Costantino pose fine alle persecuzioni. Col vescovo Teodoro (m. 319 circa) sorse un grande centro per il culto composto da tre aule splendidamente mosaicate, ciascuna delle quali conteneva oltre 2.000 fedeli. La splendida Basilica di S. Maria Assunta fu eretta su un edificio del IV sec., su cui vennero effettuati nei secoli successivi numerosi ampliamenti (poi in gran parte distrutti durante le invasioni barbariche).


Aquileia resistette infatti alle ripetute incursioni di Alarico (401, 408) ma non ad Attila che in seguito al crollo di un muro della fortificazione riuscì a penetrare nella città il 18 maggio del 452 devastandola e, si dice, spargendo il sale sulle rovine. Attila costrinse i legionari che aveva fatto prigionieri a costruire macchine da assedio in uso presso i romani e massacrò o fece schiava gran parte della popolazione. Nella memoria collettiva l'invasione degli Unni e la conquista di Aquileia da parte di Attila hanno lasciato una profonda impressione. Ancora oggi, nei modi di dire del territorio, viene dato l'appellativo di "Attila" a chi si dimostra particolarmente distruttivo.



Sono numerose le leggende nate su questo personaggio in relazione alla città, tre sono le più ricorrenti.

"L'assedio". Aquileia stava opponendo una dura resistenza agli invasori. Attila stava quasi per ordinare ai suoi la ritirata, quando vide allontanarsi in volo delle cicogne con i loro piccoli. Compreso che ormai la città non aveva più le provviste necessarie per sfamare la popolazione, mantenne l'assedio ancora per qualche giorno e riuscì a conquistarla.

"Il colle". Una volta incendiata la città, Attila, ormai lontano, diede ordine ai guerrieri di portare della terra nei loro elmi e di riversarla in un punto prestabilito. I soldati erano molto numerosi e in breve tempo riuscirono a formare una collinetta con la terra riportata, dalla quale Attila poté osservare i fumi elevarsi dalla città incendiata. Si dice che il colle sia quello di Udine, su cui sorge il castello, ma anche altre località della regione rivendicano di avere la stessa origine.

"Il pozzo d'oro". Alcuni abitanti di Aquileia erano riusciti a fuggire prima dell'incendio, trovando rifugio nell'isola di Grado. Prima della fuga però avevano fatto scavare ai loro schiavi un pozzo in cui avevano nascosto tutti i tesori e gli oggetti d'oro. Per mantenere il segreto, gli schiavi furono annegati; il pozzo d'oro non fu mai ritrovato. Questo mito era ritenuto talmente verosimile che, fino alla Prima guerra mondiale, i contratti di compravendita dei terreni includevano la clausola "Ti vendo il campo, ma non il pozzo d'oro", assicurando l'eventuale ritrovamento al precedente proprietario.

Nella foto, pozzo romano a Oderzo, dove pure la leggenda ha messo radici.

La Basilica patriarcale di Santa Maria Assunta di Aquileia, dedicata alla Vergine e ai santi Ermacora e Fortunato, ha una storia architettonica le cui radici affondano negli anni immediatamente successivi al 313 d.C. quando, grazie all’Editto di Milano che poneva termine alle persecuzioni religiose, la comunità cristiana ebbe la possibilità di edificare liberamente il primo edificio di culto. Nei secoli successivi, dopo la distruzione di questa prima chiesa, gli aquileiesi la ricostruirono per ben quattro volte, sovrapponendo le nuove costruzioni ai resti delle precedenti. L'abitato si sviluppa attorno alla basilica patriarcale per un raggio di circa un chilometro, inglobando anche i resti dell'antica città romana, ed è attraversato dal fiume Natissa.

L’attuale Basilica si presenta, nel complesso, in forme romanico-gotiche. Il pavimento è il più esteso e antico mosaico paleocristiano del mondo occidentale (ben 760 m²), portato alla luce dagli archeologi negli anni 1909-12; l’elegante soffitto ligneo a carena di nave risale al secolo XV; tra il pavimento e il soffitto, quindi, sono racchiusi oltre mille anni di vicende storico-artistiche. Il mosaico è stato parzialmente rovinato dalla messa in opera delle colonne della navata di destra; ciò avvenne alla fine del IV secolo o, secondo diverso parere, dopo la metà del V. Le fondazioni delle colonne sono in vista perché agli inizi del ‘900 fu tolto il pavimento medievale a piastrelle bianche e rosse, risalente all’epoca del patriarca Popone o Poppo (1031), per mettere in luce il prezioso mosaico paleocristiano; le passerelle di cristallo sono al livello del pavimento medioevale.

Il mosaico, che contiene scene dell'antico testamento, è particolarmente interessante perché, se nella contemporanea pittura nelle catacombe a Roma si iniziava ad assistere a una semplificazione dello stile usato, a fronte di una maggior immediatezza della raffigurazione e un marcato simbolismo, ad Aquileia si notano ancora uno stile naturalistico di matrice ellenistica, sebbene già pienamente adeguato alla nuova simbologia cristiana.

Il mosaico si trova nell'antica basilica di Aquileia, quella dei "battezzati", poiché ad Aquileia esisteva anche una seconda chiesa, accanto alla prima, per i catecumeni, coloro cioè che non avevano ancora ricevuto il battesimo, secondo l'usanza di allora di battezzarsi solo in età adulta, che quindi erano spesso la maggioranza dei fedeli.


Le raffigurazioni principali del pavimento possono essere suddivise in quattro campate, partendo dall'entrata. Nella prima compaiono vari ritratti di donatori, nodi a ellissi incrociate detti di Salomone e animali,

nonché l'inserzione più tarda di un pannello con la lotta tra il gallo e la tartaruga, contesa simbolica tra il bene ed il male. Il gallo, che canta all'alba al sorgere del sole, è ritenuto simbolo della luce di Cristo. La tartaruga è simbolo del male e del peccato a causa dell'etimologia del termine che è dal greco Ταρταρικός, Tartarikós, abitante del Tàrtaro.

Nella seconda compaiono i ritratti di benefattori; negli altri tondi le immagini delle Stagioni (Estate e Autunno; Inverno e Primavera sono state distrutte dalle fondazioni delle colonne) e del Pesce - acrostico ICHTYS (ichtys in greco significa “pesce”; ogni lettera è iniziale delle parole Iesus Christòs Theu Yòs Sotér, Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore).

Poco più avanti, sulla destra, il Pastore con il Gregge mistico: Cristo è raffigurato con la pecorella smarrita sulle spalle e in mano la syrinx (il flauto dei pastori); è circondato da animali di terra, di cielo, di acqua per ricordare che del suo Gregge fanno parte tutti gli uomini “di buona volontà”, a qualsiasi razza e cultura essi appartengano.

Attiguo al tappeto dei ritratti si estende nella terza campata quello con le immagini degli Offerenti e della Vittoria Cristiana. La Vittoria classica, alata, con in mano la corona d’alloro e la palma per il vincitore, si è trasformata nella Vittoria Cristiana che premia il credente vincitore sul peccato con l’Eucaristia.





Infine la quarta campata, che conclude il ciclo delle raffigurazioni, è costituita da un unico mirabile tappeto musivo, che rappresenta un mare pescoso, con la storia di Giona, profeta ebraico, inviato da Dio per predicare nella città di Ninive in Mesopotamia. Giona si era opposto ed era fuggito su una nave di Fenici; gettato in mare dai marinai e poi inghiottito da un mostro marino, venne poi sputato dallo stesso mostro sui lidi della Palestina. La vicenda di Giona è un motivo ricorrente nell'arte paleocristiana, perché strettamente connesso con la morte, resurrezione e ascensione di Cristo.  Le immagini più interessanti sono: Giona con le braccia alzate in atto di preghiera invoca Dio per salvare la nave e l'equipaggio dalla tempesta; Giona tra le fauci del mostro marino, qui raffigurato come pistrice, animale fantastico della mitologia greco-romana; Giona viene sputato dal mostro; Giona si riposa sotto un pergolato di viticci di zucca.


Tutto intorno, tra linee che indicano le onde marine, svariati pesci, polipi, molluschi e anche anatre. La grande Scena di Pesca allude alla predicazione del Vangelo ad opera degli Apostoli (“Seguitemi, vi farò pescatori di uomini”: Mt. 4,19). I pesci sono le persone che ascoltano la Buona Novella, la barca è la Chiesa, la rete (ma anche la lenza) è il Regno dei Cieli (“Il Regno dei Cieli è simile a una gran rete gettata in mare...”: Mt. 13,47).



Quasi al centro del tappeto marino si vede l'epigrafe con dedica al vescovo Teodoro (IV secolo). In alto è presente il monogramma cristiano, una delle prime attestazioni in un edificio pubblico. Il testo completo recita: "Theodore felix, adiuvante Deo omnipotente et poemnio caelitus tibi traditum omnia baeate fecisti et gloriose dedicasti" (Felice te, Teodoro, che con l'aiuto di Dio Onnipotente e del gregge che ti ha concesso, hai costruito questa chiesa e gloriosamente l'hai consacrata).


Tra il transetto e la navata di sinistra della Basilica è stata  collocata su una piccola colonna una drammatica scultura moderna:  il  "Cristo della Trincea". Realizzata da Edmondo Furlan, artista-soldato, quest'opera riflette e trasmette tutti i drammi che ha portato la Prima Guerra Mondiale.

Percorrendo la navata sinistra per raggiungere l’ingresso della Cripta degli Scavi, troviamo una copia del Santo Sepolcro. Il monumento, del secolo XI, riproduce la chiesa dell’Anastasis (della Resurrezione), eretta in età tardoantica a Gerusalemme sul sepolcro di Cristo; un tempo era usato durante la liturgia della Settimana Santa.

All'esterno, attorno all'abside della Basilica, vi è il cimitero dei caduti della guerra 1915-1918, dove riposano dieci degli undici militi ignoti tra i quali Maria Bergamas, madre di un caduto volontario di guerra, scelse il 26 ottobre 1921 quello le cui spoglie mortali riposano da allora nel complesso monumentale del Vittoriano, in piazza Venezia a Roma. (clicca sul nome)

La torre campanaria che si erge imponente accanto alla Basilica patriarcale fu edificata nella prima metà dell’XI secolo dal patriarca Popone e innalzata ulteriormente a partire dalla fine del XIV sec., fino a raggiungere l’altezza di 73 metri. Per la costruzione vennero sfruttate le cave di materiale edilizio rappresentate dagli antichi edifici in rovina, in particolare dall’anfiteatro.
Davanti al campanile, su un'alta colonna, si nota la lupa capitolina che allatta Romolo e Remo.










Qui finisce il secondo giorno della nostra gita. Rientriamo a Lignano e ci prepariamo per la prossima tappa, Trieste. La cronaca prosegue in altra pagina.

Nessun commento:

Posta un commento