2 giugno: Spilimbergo, San Daniele del Friuli, Aquileia.
Nel cuore del Friuli, a due passi dalle grandi città, sorge Spilimbergo. La sua storia inizia attorno all'XI secolo, quando i conti Spengenberg, originari della Carinzia, si trapiantarono nella zona in qualità di vassalli del patriarca di Aquileia.
Interessante mosaico di Spilimbergo antica.
Spilimbergo ebbe grande splendore nel Medioevo e nel Rinascimento e
conserva ancora oggi l’impianto urbano dell’epoca, con strade porticate,
vicoli e piazzette, palazzi affrescati e innumerevoli opere d’arte
nelle chiese. Come prima tappa siamo andati alla Scuola Mosaicisti del Friuli
che è attiva dal 1922, fondata su iniziativa di Lodovico Zanini
(delegato della Società Umanitaria di Milano a Udine) e di Ezio
Cantarutti (Sindaco di Spilimbergo) per offrire opportunità di studio e di lavoro ai giovani. Gian Domenico Facchina, mosaicista e imprenditore di Sequals (Pordenone), ha messo a punto la tecnica musiva a rovescio su carta.
La conoscenza e l’esperienza dell'arte del mosaico è stata tramandata dai magistri musivari
ai giovani apprendisti di generazione in generazione direttamente nei
cantieri di lavoro, e questo saper fare è giunto integro sino
all’istituzione della Scuola, che importa studenti di tutto il mondo (attualmente 22 sono le nazionalità presenti) ed esporta opere d’arte nei luoghi più significativi.
L’obiettivo è quello di coniugare il mantenimento della tradizione con l’innovazione. Si punta quindi alla sperimentazione e alla ricerca per trovare soluzioni nuove, soprattutto nel campo dell’arredo urbano e degli interni. Per questo alle tradizionali materie di studio (mosaico, terrazzo e disegno) si affiancano la grafica computer, la progettazione musiva e la teoria del colore. Negli ultimi anni la Scuola si è aperta a tutto campo, confrontandosi felicemente con vari settori: dall’architettura al design, dall’arte contemporanea al restauro.
L’obiettivo è quello di coniugare il mantenimento della tradizione con l’innovazione. Si punta quindi alla sperimentazione e alla ricerca per trovare soluzioni nuove, soprattutto nel campo dell’arredo urbano e degli interni. Per questo alle tradizionali materie di studio (mosaico, terrazzo e disegno) si affiancano la grafica computer, la progettazione musiva e la teoria del colore. Negli ultimi anni la Scuola si è aperta a tutto campo, confrontandosi felicemente con vari settori: dall’architettura al design, dall’arte contemporanea al restauro.
I corsi professionali per mosaicisti hanno la durata di tre anni. L’iscrizione al primo anno prevede un numero massimo di cinquanta allievi, di cui venticinque
residenti nella Regione Friuli Venezia Giulia. Per essere ammessi ai
corsi professionali occorre essere in possesso del diploma di scuola
media superiore o della promozione alla terza classe superiore e non
avere superato il trentesimo anno di età. I corsi di perfezionamento
sull’arte musiva sono rivolti a un numero limitato di allievi già
qualificati presso la Scuola Mosaicisti del Friuli. La durata è annuale e
la frequenza obbligatoria.
La partecipazione degli allievi più meritevoli è sostenuta dalla Scuola con borse di studio.
Una Scuola che, forse unica anche in questo, ricerca e distribuisce attivamente occasioni di lavoro per i suoi ex allievi, convinta della necessità di compiere, oltre al dovere della formazione, anche quello dell’inserimento dei giovani nel mondo professionale.
La partecipazione degli allievi più meritevoli è sostenuta dalla Scuola con borse di studio.
Una Scuola che, forse unica anche in questo, ricerca e distribuisce attivamente occasioni di lavoro per i suoi ex allievi, convinta della necessità di compiere, oltre al dovere della formazione, anche quello dell’inserimento dei giovani nel mondo professionale.
La Scuola Mosaicisti del Friuli viene
invitata a esporre, e nel contempo a far conoscere l’arte musiva, in
molti contesti internazionali. Ed è così che la sua triplice funzione
– didattica, produttiva e promozionale – le consente di valorizzare la
tecnica del mosaico attualizzandola: dal 1922 una tradizione in
evoluzione.
Dal progetto dell’opera alla sua esecuzione, fino all’applicazione in sito, la Scuola prepara gli allievi integrando le cognizioni teoriche con la pratica, a diretto contatto con il mondo del lavoro.
Dal progetto dell’opera alla sua esecuzione, fino all’applicazione in sito, la Scuola prepara gli allievi integrando le cognizioni teoriche con la pratica, a diretto contatto con il mondo del lavoro.
Lasciamo la scuola e ci dirigiamo verso il centro.
Il cuore della città è sicuramente Corso Roma, che attraversa il centro storico da est a ovest e sul quale si affacciano storici edifici multicolori.
Percorrendo la via si incontra la Torre occidentale, risalente al XIV
secolo e che era l'ingresso al Borgo Nuovo, racchiuso dalla terza cinta
muraria.
Proseguendo ancora si arriva alla Torre Orientale, che apparteneva alla
seconda cinta muraria. Adagiata alla torre si può ammirare la Casa Dipinta, con affreschi del XVI secolo rappresentanti scene della vita di Ercole.
Corso Roma termina in piazza Duomo, delimitata a sud dalla chiesa di Santa Maria Maggiore,
duomo della città. La chiesa fu voluta dal signore di Spilimbergo
Walterpertoldo nel 1284 e la prima pietra venne posata il 4 ottobre
dello stesso anno. La costruzione si prolungò fino circa al 1359, anche
se il duomo fu consacrato solamente nel 1453. L'irregolarità della pianta della costruzione si deve, più che a ripensamenti o rifacimenti, allo sfruttamento di strutture già esistenti
e alla conformazione del territorio. Infatti l'edificio fu costruito
addossato a una cinta muraria, e il campanile risulta costruito su un
portale della stessa.
In questa bella piazza si svolgevano le trattative, si eseguivano i
controlli sulle merci e si pagavano le gabelle. Restano a testimoniarlo
il duecentesco Palazzo del Daziario, sede dei magistrati, e il Palazzo della Loggia (XIV se.), dove venivano immagazzinate le merci ed effettuati controlli.
Su una colonna del portico è incisa la Macia, l’antica unità di misura di lunghezza. La Rievocazione Storica
della Macia di Spilimbergo è la manifestazione di punta della
cittadina, inserita nella splendida cornice storica del borgo vecchio,
all’interno della prima cinta muraria. Prende il nome dall’antica misura
di lunghezza per stoffe, la macia appunto, in uso a Spilimbergo già nel
1438. La manifestazione ricrea il clima della vita quotidiana della
città, una delle più importanti a livello politico e culturale in
Friuli, agli inizi del ‘500.
Fotografia della targa.
Dalla piazza, attraverso un ponte sull'antico fossato, si entra nel Castello,
l'edificio più orientale della città, costruito sul limitare del fiume
Tagliamento. Risale al 1120 il primo documento che parla del Castrum de
Spengenberg. Distrutto da un incendio nel 1511 fu ricostruito secondo
schemi medioevali.
Al suo interno il quattrocentesco Palazzo Dipinto dalle belle trifore gotiche e rinascimentali e dagli scenografici affreschi sulla facciata, attribuiti ad Andrea Bellunello, che lavorò a Spilimbergo fra il 1469 e il 1475.
A nord del castello si trova il Palazzo di sopra, recentemente restaurato e ora sede del Municipio.
Dal cortile del palazzo si gode di una magnifica vista sulla valle del
Tagliamento. Di fronte al palazzo il quartiere Valbruna, dalla tipica
struttura medioevale.
La storia del Castello si confonde con quella dei Signori di Spilimbergo, gli Spengenberg,
famiglia di nobili di origine carinziana, fedeli all’Impero, tra le più
ragguardevoli in Regione e fra quelli presenti nel Parlamento del
Friuli, “ministeriales” del Patriarcato di Aquileia. Facendo leva sul
loro potere e prestigio, entrarono spesso in contrasto con il Patriarca
e in più di un’occasione complottarono contro di lui. L’episodio più
celebre e drammatico avvenne nel 1350, durante la guerra civile feudale
che insanguinò il Friuli: nella piana della Richinvelda, pochi
chilometri a sud della città, in un agguato alcuni feudatari partiti dal
Castello di Spilimbergo e guidati dagli Spengenberg affrontarono e uccisero
il vecchio ma energico patriarca (poi proclamato Beato) Bertrando di
San Genesio. Un antico cippo, eretto nella piana, ricorda il luogo dove
il Patriarca fu colpito a morte dai suoi nemici, i Signori di
Spilimbergo, il 5 giugno del 1350.
Il Castello sostenne numerosi assedi nel corso delle
guerre medievali tra i signori veneti e friulani, resistendo ai ripetuti
assalti dei da Camino. Non è possibile ricostruire come il Castello
apparisse all’epoca, poiché venne distrutto, demolito, ricostruito e
ampliato più volte.
Ciò che oggi è visibile del Castello di Spilimbergo, dunque non risale ad un originario edificio, ma ad una serie di modifiche che si sono venute a sommare durante i secoli.
Già danneggiato da un terremoto, il Castello nel 1511 fu incendiato nel corso di una rivolta popolare; l’ala sud non fu più ricostruita, si salvò solo il cosiddetto Palazzo Dipinto. Fu ancora modificato nel 1566; nel 1865 fu demolita la torricella sul ponte e ampliato l’ingresso; furono inoltre effettuati altri cambiamenti (scomparsa del ponte levatoio, delle torri, delle merlature, di terrazze e giardini) che portarono all’attuale configurazione.
Il Castello si presenta oggi come un agglomerato di residenze signorili, disposte ad anello attorno all’ampia corte centrale, ed è circondato per metà da un profondo fossato, mentre per il resto è a picco su di una scarpata del Tagliamento.
Ciò che oggi è visibile del Castello di Spilimbergo, dunque non risale ad un originario edificio, ma ad una serie di modifiche che si sono venute a sommare durante i secoli.
Già danneggiato da un terremoto, il Castello nel 1511 fu incendiato nel corso di una rivolta popolare; l’ala sud non fu più ricostruita, si salvò solo il cosiddetto Palazzo Dipinto. Fu ancora modificato nel 1566; nel 1865 fu demolita la torricella sul ponte e ampliato l’ingresso; furono inoltre effettuati altri cambiamenti (scomparsa del ponte levatoio, delle torri, delle merlature, di terrazze e giardini) che portarono all’attuale configurazione.
Il Castello si presenta oggi come un agglomerato di residenze signorili, disposte ad anello attorno all’ampia corte centrale, ed è circondato per metà da un profondo fossato, mentre per il resto è a picco su di una scarpata del Tagliamento.
Lasciamo Spilimbergo per andare a San Daniele del Friuli, dove
visiteremo il prosciuttificio DOK DALL'AVA e ci fermeremo a pranzo.
Il comune di San Daniele, arroccato sulla sommità di un
colle a 252 m s.l.m., è al centro del Friuli e domina la pianura
circostante. E' una città raccolta ed accogliente con diversi tesori artistici. Il territorio gode di un'aria particolare che dona ai prosciutti (prodotti localmente), un sapore unico
e inconfondibile conosciuto in tutto il mondo. A poca distanza dal
colle, le limpide acque del Tagliamento sono la naturale dimora della trota
(qui chiamata "la regina di San Daniele") che viene allevata e lavorata
in modo artigianale. La città può vantare la vicinanza al Mare
Adriatico a sud e alla Carnia a nord.
Prosciutto di San Daniele (DOP) è un prosciutto crudo stagionato riconosciuto prodotto a Denominazione di Origine dal 1970 dallo Stato italiano con la legge n. 507 e dal 1996 dall'Unione europea come prodotto a Denominazione di Origine Protetta - DOP: perché le sue caratteristiche uniche e irripetibili sono dovute al particolare ambiente geografico,
che include fattori naturali e umani. Il Prosciutto di San Daniele
viene prodotto da 31 aziende nel comune di San Daniele del Friuli, in
provincia di Udine secondo modalità rigorosamente definite dal relativo
Disciplinare di produzione che ha valore di legge. Solo i prosciutti che
rispettano tutti i parametri sono certificati e su di
essi viene impresso a fuoco il marchio del Consorzio, che comprende il
codice identificativo del produttore e costituisce elemento di
certificazione e garanzia.
Siamo andati al prosciuttificio Dok Dall'Ava, dove ci
hanno illustrato le varie fasi della produzione del loro ottimo
prosciutto e poiché sono anche punto di ristoro abbiamo pranzato,
rigorosamente tutto a base di crudo DOP. Sazi e un po' sonnacchiosi ci
siamo poi diretti ad Aquileia, ultima tappa della giornata.
Fondata nel 181 a.C. come colonia di diritto latino da parte dei triumviri romani Lucio Manlio Acidino, Publio Scipione Nasica e Gaio Flaminio mandati dal Senato a sbarrare la strada
ai barbari che minacciavano i confini orientali d'Italia, la città
dapprima crebbe quale base militare per le campagne contro gli Istri e i
Carni e poi per l'espansione romana verso il Danubio. I primi coloni furono 3500 fanti seguiti dalle rispettive famiglie.
Divenne centro politico-amministrativo (capitale della X Regione augustea, Venetia et Histria) e prospero emporio, avvantaggiata dal lungo sistema portuale e dalla raggiera di importanti strade che
se ne dipartivano sia verso il Nord, oltre le Alpi e fino al Baltico
("via dell'ambra"), sia in senso latitudinale, dalle Gallie all'Oriente.
Fin da tarda età repubblicana e durante quasi tutta l'epoca imperiale
Aquileia costituì uno dei grandi centri nevralgici dell'Impero Romano.
Notevole fu la vita artistica, sostenuta dalla ricchezza dei committenti e dall'intensità dei traffici e dei contatti.
Ha un’area archeologica di eccezionale importanza, considerata dall’Unesco Patrimonio dell’umanità.
Nella foto, ricostruzione di Aquileia antica.
Aquileia esercitò una nuova funzione morale e culturale con l'avvento del Cristianesimo
che, secondo la tradizione, fu predicato dall'apostolo san Marco, e il
cui sviluppo fu in ogni caso fondato su una serie di vescovi, diaconi e
presbiteri che subirono il martirio. I primi furono Ermagora e Fortunato
(circa 70 d.C.). Nel 313 l'imperatore Costantino pose fine alle
persecuzioni. Col vescovo Teodoro (m. 319 circa) sorse un grande centro
per il culto composto da tre aule splendidamente mosaicate,
ciascuna delle quali conteneva oltre 2.000 fedeli. La splendida
Basilica di S. Maria Assunta fu eretta su un edificio del IV sec., su
cui vennero effettuati nei secoli successivi numerosi ampliamenti (poi
in gran parte distrutti durante le invasioni barbariche).
Aquileia resistette infatti alle ripetute incursioni di Alarico (401, 408) ma non ad Attila
che in seguito al crollo di un muro della fortificazione riuscì a
penetrare nella città il 18 maggio del 452 devastandola e, si dice,
spargendo il sale sulle rovine. Attila costrinse i legionari che aveva
fatto prigionieri a costruire macchine da assedio in uso presso i romani
e massacrò o fece schiava gran parte della popolazione. Nella memoria
collettiva l'invasione degli Unni e la conquista di Aquileia da parte di
Attila hanno lasciato una profonda impressione. Ancora oggi, nei modi di dire del territorio, viene dato l'appellativo di "Attila" a chi si dimostra particolarmente distruttivo.
Sono numerose le leggende nate su questo personaggio in relazione alla città, tre sono le più ricorrenti.
"L'assedio". Aquileia
stava opponendo una dura resistenza agli invasori. Attila stava quasi
per ordinare ai suoi la ritirata, quando vide allontanarsi in volo delle
cicogne con i loro piccoli. Compreso che ormai la
città non aveva più le provviste necessarie per sfamare la popolazione,
mantenne l'assedio ancora per qualche giorno e riuscì a conquistarla.
"Il colle". Una volta
incendiata la città, Attila, ormai lontano, diede ordine ai guerrieri di
portare della terra nei loro elmi e di riversarla in un punto
prestabilito. I soldati erano molto numerosi e in breve tempo riuscirono
a formare una collinetta con la terra riportata, dalla quale Attila
poté osservare i fumi elevarsi dalla città incendiata. Si dice che il
colle sia quello di Udine, su cui sorge il castello, ma anche altre località della regione rivendicano di avere la stessa origine.
"Il pozzo d'oro". Alcuni
abitanti di Aquileia erano riusciti a fuggire prima dell'incendio,
trovando rifugio nell'isola di Grado. Prima della fuga però avevano
fatto scavare ai loro schiavi un pozzo in cui avevano nascosto tutti i
tesori e gli oggetti d'oro. Per mantenere il segreto, gli schiavi furono
annegati; il pozzo d'oro non fu mai ritrovato. Questo mito era ritenuto
talmente verosimile che, fino alla Prima guerra mondiale, i contratti
di compravendita dei terreni includevano la clausola "Ti vendo il campo, ma non il pozzo d'oro", assicurando l'eventuale ritrovamento al precedente proprietario.
Nella foto, pozzo romano a Oderzo, dove pure la leggenda ha messo radici.
La Basilica patriarcale di Santa Maria Assunta di
Aquileia, dedicata alla Vergine e ai santi Ermacora e Fortunato, ha una
storia architettonica le cui radici affondano negli anni immediatamente
successivi al 313 d.C. quando, grazie all’Editto di Milano che poneva
termine alle persecuzioni religiose, la comunità cristiana ebbe la
possibilità di edificare liberamente il primo edificio di culto. Nei
secoli successivi, dopo la distruzione di questa prima chiesa, gli
aquileiesi la ricostruirono per ben quattro volte,
sovrapponendo le nuove costruzioni ai resti delle precedenti. L'abitato
si sviluppa attorno alla basilica patriarcale per un raggio di circa un
chilometro, inglobando anche i resti dell'antica città romana, ed è
attraversato dal fiume Natissa.
L’attuale Basilica si presenta, nel complesso, in forme romanico-gotiche. Il pavimento è il più esteso e antico mosaico paleocristiano
del mondo occidentale (ben 760 m²), portato alla luce dagli archeologi
negli anni 1909-12; l’elegante soffitto ligneo a carena di nave risale
al secolo XV; tra il pavimento e il soffitto, quindi, sono racchiusi
oltre mille anni di vicende storico-artistiche. Il mosaico è stato
parzialmente rovinato dalla messa in opera delle colonne della navata
di destra; ciò avvenne alla fine del IV secolo o, secondo diverso
parere, dopo la metà del V. Le fondazioni delle colonne sono in vista
perché agli inizi del ‘900 fu tolto il pavimento medievale
a piastrelle bianche e rosse, risalente all’epoca del patriarca Popone o
Poppo (1031), per mettere in luce il prezioso mosaico paleocristiano;
le passerelle di cristallo sono al livello del pavimento medioevale.
Il mosaico, che contiene scene dell'antico
testamento, è particolarmente interessante perché, se nella
contemporanea pittura nelle catacombe a Roma si iniziava ad assistere a
una semplificazione dello stile usato, a fronte di una maggior
immediatezza della raffigurazione e un marcato simbolismo, ad Aquileia
si notano ancora uno stile naturalistico di matrice ellenistica, sebbene già pienamente adeguato alla nuova simbologia cristiana.
Il mosaico si trova nell'antica basilica di Aquileia, quella dei "battezzati", poiché ad Aquileia esisteva anche una seconda chiesa, accanto alla prima, per i catecumeni,
coloro cioè che non avevano ancora ricevuto il battesimo, secondo
l'usanza di allora di battezzarsi solo in età adulta, che quindi erano
spesso la maggioranza dei fedeli.
Le raffigurazioni principali del pavimento possono essere suddivise in
quattro campate, partendo dall'entrata. Nella prima compaiono vari
ritratti di donatori, nodi a ellissi incrociate detti di Salomone e animali,
nonché l'inserzione più tarda di un pannello con la lotta tra il gallo e la tartaruga, contesa simbolica tra il bene ed il male. Il gallo, che canta all'alba al sorgere del sole, è ritenuto simbolo della luce di Cristo. La tartaruga è simbolo del male e del peccato a causa dell'etimologia del termine che è dal greco Ταρταρικός, Tartarikós, abitante del Tàrtaro.
Nella seconda compaiono i ritratti di benefattori; negli altri tondi le immagini delle Stagioni (Estate e Autunno; Inverno e Primavera sono state distrutte dalle fondazioni delle colonne) e del Pesce -
acrostico ICHTYS (ichtys in greco significa “pesce”; ogni lettera è
iniziale delle parole Iesus Christòs Theu Yòs Sotér, Gesù Cristo Figlio
di Dio Salvatore).
Poco più avanti, sulla destra, il Pastore con il Gregge mistico: Cristo è raffigurato con la pecorella smarrita sulle spalle e in mano la syrinx (il flauto dei pastori); è circondato
da animali di terra, di cielo, di acqua per ricordare che del suo
Gregge fanno parte tutti gli uomini “di buona volontà”, a qualsiasi
razza e cultura essi appartengano.
Attiguo al tappeto dei ritratti si estende nella terza campata quello con le immagini degli Offerenti e della Vittoria Cristiana.
La Vittoria classica, alata, con in mano la corona d’alloro e la palma
per il vincitore, si è trasformata nella Vittoria Cristiana che premia
il credente vincitore sul peccato con l’Eucaristia.
Infine la quarta campata, che conclude il ciclo delle raffigurazioni, è
costituita da un unico mirabile tappeto musivo, che rappresenta un mare pescoso, con la storia di Giona,
profeta ebraico, inviato da Dio per predicare nella città di Ninive in
Mesopotamia. Giona si era opposto ed era fuggito su una nave di Fenici;
gettato in mare dai marinai e poi inghiottito da un mostro marino, venne
poi sputato dallo stesso mostro sui lidi della Palestina. La vicenda di
Giona è un motivo ricorrente nell'arte paleocristiana, perché
strettamente connesso con la morte, resurrezione e ascensione di Cristo.
Le immagini più interessanti sono: Giona con le braccia alzate in atto
di preghiera invoca Dio per salvare la nave e l'equipaggio dalla
tempesta; Giona tra le fauci del mostro marino, qui raffigurato come
pistrice, animale fantastico della mitologia greco-romana; Giona viene
sputato dal mostro; Giona si riposa sotto un pergolato di viticci di
zucca.
Tutto intorno, tra linee che indicano le onde marine, svariati pesci, polipi, molluschi e anche anatre. La grande Scena di Pesca
allude alla predicazione del Vangelo ad opera degli Apostoli
(“Seguitemi, vi farò pescatori di uomini”: Mt. 4,19). I pesci sono le
persone che ascoltano la Buona Novella, la barca è la Chiesa, la rete
(ma anche la lenza) è il Regno dei Cieli (“Il Regno dei Cieli è simile a
una gran rete gettata in mare...”: Mt. 13,47).
Quasi al centro del tappeto marino si vede l'epigrafe con dedica
al vescovo Teodoro (IV secolo). In alto è presente il monogramma
cristiano, una delle prime attestazioni in un edificio pubblico. Il
testo completo recita: "Theodore felix, adiuvante Deo omnipotente et
poemnio caelitus tibi traditum omnia baeate fecisti et gloriose
dedicasti" (Felice te, Teodoro, che con l'aiuto di Dio Onnipotente e del
gregge che ti ha concesso, hai costruito questa chiesa e gloriosamente
l'hai consacrata).
Tra il transetto e la navata di sinistra della Basilica è stata collocata su una piccola colonna una drammatica scultura moderna: il "Cristo della Trincea". Realizzata
da Edmondo Furlan, artista-soldato, quest'opera riflette e trasmette
tutti i drammi che ha portato la Prima Guerra Mondiale.
Percorrendo la navata sinistra per raggiungere l’ingresso della Cripta degli Scavi, troviamo una copia del Santo Sepolcro.
Il monumento, del secolo XI, riproduce la chiesa dell’Anastasis (della
Resurrezione), eretta in età tardoantica a Gerusalemme sul sepolcro di
Cristo; un tempo era usato durante la liturgia della Settimana Santa.
All'esterno, attorno all'abside della Basilica, vi è il cimitero dei caduti della guerra 1915-1918, dove riposano dieci degli undici militi ignoti tra i quali Maria Bergamas,
madre di un caduto volontario di guerra, scelse il 26 ottobre 1921
quello le cui spoglie mortali riposano da allora nel complesso
monumentale del Vittoriano, in piazza Venezia a Roma. (clicca sul nome)
La torre campanaria che
si erge imponente accanto alla Basilica patriarcale fu edificata nella
prima metà dell’XI secolo dal patriarca Popone e innalzata ulteriormente
a partire dalla fine del XIV sec., fino a raggiungere l’altezza di 73 metri. Per la costruzione vennero sfruttate le cave di materiale edilizio rappresentate dagli antichi edifici in rovina, in particolare dall’anfiteatro.
Davanti al campanile, su un'alta colonna, si nota la lupa capitolina che allatta Romolo e Remo.
Qui finisce il secondo giorno della nostra gita. Rientriamo a
Lignano e ci prepariamo per la prossima tappa, Trieste. La cronaca
prosegue in altra pagina.
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